In questi ultimi anni l’opinione pubblica si è più volte interrogata sulle modalità delle cure mediche al termine della vita e fin dove si possono spingere le cure intensive. Ricordiamo la storia di Terri Schiavo, Piergiorgio Welby, Elena Moroni, Giovanni Nuvoli, casi limite in cui il dilemma etico è spesso irrisolvibile. Questi dibattiti dividono l’opinione pubblica sulla base delle proprie convinzioni morali, religiose e politiche. In particolare in questi ultimi mesi abbiamo visto aprirsi tormentate discussioni attorno al caso di Eluana Englaro. E’ sembrato evidente che il caso è stato più spunto di strumentalizzazione tra le parti che volontà di porre rimedio ad un caso medico limite e controverso. Nella realtà i medici e gli infermieri delle rianimazioni si cimentano quotidianamente con questi problemi senza il clamore dei talk show e delle polemiche. In queste pubbliche dispute tra etica, religione e rianimazione si è notata la scarsa partecipazione al dibattito di tutte quelle figure mediche o infermieristiche che in prima persona si impegnano e combattono nei reparti di rianimazione, assistendo e curando persone in fin di vita. Chi più di queste figure ha a cuore la vita visto che tutti i giorni essa rappresenta il filo conduttore ed ispiratore del proprio lavoro. E con quanta dedizione questi operatori lavorano incessantemente, distaccandosi dalle lunghe, pompose e spesso inconcludenti controversie della politica, della religione e dai falsi miti che esse generano. Eppure queste figure professionali se interrogate sul comportamento da tenere in casi di malattie incurabili o terminali o danni cerebrali irreversibili sono in larga parte favorevoli alla eutanasia, consapevoli che il protrarsi delle cure non ha finalità di guarigione ma il solo protrarsi della sofferenza.
Citiamo i dati di un sondaggio dell`aprile 2006, pubblicato anche su Torino medica, l`organo ufficiale dell`Ordine dei Medici di Torino, e avente come target infermieri (in maggioranza tra i 30 e i 40 anni, impiegati in reparti di terapia intensiva, lungo-degenza e chirurgia), è emerso che: il 74% degli infermieri interpellati è favorevole alla `dolce morte` passiva di cui l`83% anche a quella attiva; il 44% ha avuto diverse esperienze di pazienti che hanno chiesto espressamente e ripetutamente di morire perché venisse posto fine alle loro sofferenze atroci e senza speranza.
Il 76% invoca il testamento biologico; l`8% si dichiara disposto a praticare l`eutanasia anche illegalmente, senza richiesta esplicita del paziente
il 37% si dice disposto ad aiutare i pazienti a mettere fine a un calvario, anche ricorrendo al suicidio assistito. Il 76% degli infermieri credenti è favorevole all`eutanasia volontaria. I risultati del sondaggio torinese confermano anche quelli emersi da un`indagine del Centro di Bioetica dell`Università cattolica di Milano. I medici sanno bene, ed i rianimatori ancora meglio, che non bisogna mai curare la malattia ma l’individuo che ne è portatore tenendo in considerazione la sua dignità e personalità sia in vita che nel suo avvicinarsi alla morte. Eppure queste figure prendono parte marginalmente ai dibattiti: colpa della loro ignavia o della paura di schierarsi o di una falsa informazione imperante?
Dovremmo reinsegnare a tutti a riappropriarsi del senso di dignità della vita e dignità della morte come parte di quei valori che ahimè stanno scomparendo come principi ispiratori della propria esistenza. Il contratto di nascita dell’individuo comprende, insieme a tutti le gioie e i dolori della vita, anche la morte e quindi è inutile affidarsi a cure avanzate che la scongiurino, in quanto essa è ineluttabile o irreversibile è l’evento morboso.
Cosa diversa è curare: curare vuol dire mantenere in buona salute, vuol dire prevenire le malattie stesse o curarle, e quando esse non sono più curabili le cure devono volgersi verso l’abolizione del dolore e della sofferenza senza mai perdere di vista la dignità e il rispetto dell’individuo. In questo senso l’evoluzione del pensiero medico ed etico-religioso è progredito col progredire delle cure mediche. Le moderne tecniche di rianimazione consentono sia nelle malattie acute che nelle malattie croniche di mantenere in vita un malato che altrimenti sarebbe morto in modo ineluttabile. Queste tecniche avanzate di rianimazione e terapia intensiva salvano da morte certa nella gran parte delle malattie acute.
Ma se le stesse tecniche vengono usate per curare malattie ormai in stato avanzato o incurabili il risultato che si raggiunge è solo quello di mantenere in vita il paziente fintanto che queste cure vengono attuate senza scongiurarne comunque l’evoluzione infausta alla sospensione delle stesse. Questo comportamento prende il nome di accanimento terapeutico. Non si racconta mai e poco spazio nelle cronache viene dato alla descrizione del dolore, della sofferenza del malato.Il dolore ti morde, ti trafigge, ti impedisce di pensare, ti impedisce di amare, di rapportarti agli altri che pian piano si allontaneranno da te. Presto il sofferente si vede chiuso in una prigione in cui non può comunicare con nessuno. E da questa prigione non si scappa perché sei mantenuto in vita. Tutti questi sono atti che avvengono naturalmente quando la morte si avvicina, solo che in questo caso la morte è impedita.
Ma che cos’è l’eutanasia? E’ un termine derivato dal greco (eu = buona e thanatos = morte) e per eutanasia si intende quell’atto volto a liberare il paziente da non più sopportabili dolori e sofferenze, provocandone la morte. Osservando le modalità con cui essa è attuata, l`eutanasia può definirsi attiva, qualora la morte sia provocata tramite la somministrazione di farmaci oppure passiva mediante l`interruzione o l`omissione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza dell’individuo ma ponendo in essere tutte le cure che prevedano il trattamento del dolore e della sofferenza, l’idratazione e la nutrizione. Il Codice di Deontologia Medica accetta l’eutanasia passiva come atto che impedisca di fatto l’accanimento terapeutico. Nella giurisprudenza e nel codice di deontologia medica i due casi (eutanasia attiva e passiva) sono considerati in modo nettamente diverso: la legge, infatti, proibisce ad un medico di compiere atti, procedure o terapie senza il consenso del paziente, quindi limitazioni e divieti si possono porre solo sull`eutanasia attiva, mentre non si può fare nulla a riguardo dell`eutanasia passiva che di fatto può essere `garantito` dai diritti del paziente. L`eutanasia è volontaria quando segue la richiesta esplicita del soggetto. Questo è possibile quando la persona è capace di intendere e di volere oppure mediante il cosiddetto testamento biologico. L’eutanasia è definita non-volontaria nei casi in cui sia una persona espressamente designata a decidere per conto di un individuo in uno stato di incoscienza o mentalmente incapace di operare una scelta pienamente consapevole fra il vivere e il morire (come nell’eutanasia infantile o nei casi di grave disabilità come il caso Englaro).
Per comprendere meglio quanto detto riportiamo il Giuramento di Ippocrate che ogni medico compie prima di intraprendere la sua professione. Leggerlo con attenzione permette di comprendere quali sono gli atti e le scelte che quotidianamente compie un medico nell’esercizio della sua attività.
“Consapevole dell` importanza e della solennità dell` atto che compio e dell` impegno che assumo, giuro:
di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento; di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell` uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente; di attenermi alla mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; di prestare la mia opera con diligenza, perizia, e prudenza secondo scienza e coscienza ed osservando le norme deontologiche che regolano l`esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione; di affidare la mia reputazione esclusivamente che alla mia capacità professionale ed alle mie doti morali; di evitare, anche al di fuori dell`esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il prestigio e la dignità della professione. Di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;
di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità condizione sociale e ideologia politica; di prestare assistenza d` urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità a disposizione dell`Autorità competente; di rispettare e facilitare in ogni caso il diritto del malato alla libera scelta del suo medico, tenuto conto che il rapporto tra medico e paziente è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul reciproco rispetto; di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell` esercizio della mia professione o in ragione del mio stato;
di astenermi dall` `accanimento` diagnostico e terapeutico.”
Altro aspetto non trascurabile da mettere in evidenza è l’occupazione delle risorse mediche. I reparti di Terapia Intensiva e Rianimazione sono dei settori ad alta specializzazione, con strumentazione tecnologica avanzata, reparti ad alto costo quindi e con un numero limitato di posti letto. L’occupazione di questi posti letto da parte di malati terminali o incurabili limita e sottrae risorse verso quei pazienti affetti da malattie acute che non solo sono invece curabili ma la cui guarigione dipende dalla precocità delle cure stesse.
Se da una parte la sofferenza in senso cristiano è sempre stata vista come una prova a cui il cielo ci sottopone ed il dolore come una strada di avvicinamento a Dio dall’altra il dovere di ogni buon cristiano è quello di lenire le sofferenze altrui.
Papa S. Pio X poneva l’accento al fatto che ogni buon cristano ha il dovere di lenire i dolori, le sofferenze dei malati allontanandosi dal concetto medioevale di dolore come espiazione dei peccati.
Anche Papa Giovanni Paolo II nella enciclica “Evangelium Vitae” evidenzia il valore incomparabile della persona umana nella sua completezza di carne e di spirito. Santa Teresa di Calcutta quando curava i derelitti degli angoli più abbandonati del mondo aveva ben presente questo concetto, non si tirava indietro di fronte alla sofferenza ma gli andava incontro. Non si ergeva dall’alto di una cattedra a dogmatizzare ciò che è giusto fare di fronte alla sofferenza, e come lei centinaia di altri missionari che operavano nelle più estreme difficoltà. Il paradosso sociale in cui viviamo ci porta a prestare cure a malattie terminali ed irreversibili mentre in molti luoghi del mondo i bambini sani muoiono perché manca loro la razione di latte. Questo rappresenta il primo e più importante dei principi a cui si ispira l’arte medica: curare in libertà, indipendenza di giudizio, di comportamento secondo scienza e coscienza nel rispetto di tutti gli individui senza distinzione di razza, sesso e ceto sociale.
Enzo Primarano

