Sono tante le ragioni per cui le flotte navali internazionali antipirateria somala non avranno mai modo di poter spazzare via la pirateria. Altrettanti quelle per le quali non saranno mai ritirate. Quella di creare una flotta navale militare internazionale con il compito di proteggere le navi cariche di aiuti umanitari e capace anche di contrastare il fenomeno della pirateria marittima nel mare del Corno d`Africa è stata una delle principali preoccupazione della comunità internazionale. Un intervento che però, non ha per nulla scoraggiato i `banditi del mare` che appaiono sempre di più scatenati e inefrenabili. L`intervento militare navale internazionale è iniziato nel 2008 e, continua tuttora, condotto attraverso missioni internazionali NATO, Ue e di altri Paesi e anche in forma indipendente. Fu nel giugno 2008 infatti, che il Consiglio di Sicurezza dell`ONU approvò all`unanimità una risoluzione, la 1814, che autorizzava le navi delle marine da guerra di Paesi terzi a entrare nelle acque somale per inseguire i pirati in forza di una volontà di contrasto del fenomeno della pirateria nell`Oceano Indiano e sulla terra ferma. Con la risoluzione 1816 veniva istituita una missione navale con il compito di contrastare il fenomeno della pirateria e proteggere le navi in transito nel Golfo di Aden, soprattutto quelle con gli aiuti del Programma Alimentare Mondiale, PAM. Alla missione, da subito, presero parte Gran Bretagna, Germania, Grecia, Italia, Turchia e Stati Uniti. Una missione autorizzata per la prima volta il 9 ottobre 2008. Attualmente è denominata ‘Ocean Shield’ ed è gestita dalla NATO. Di risoluzioni del CdS ONU ne sono poi, seguite tante altre che autorizzano anche al ricorso alla forza: 1838 (2008), 1846 (2008) e, infine 1897 (2009), Nel frattempo Francia e Spagna, il 30 luglio dello stesso anno, annunciavano azioni congiunte contro i pirati, chiedendo anche l`intervento della comunità internazionale. Il Consiglio dei ministri degli Esteri dell`Unione europea, Ue, su sollecitazione dei due Paesi, dopo aver messo allo studio l`invio di una missione navale per proteggere le navi mercantili in navigazione nel mare al largo della Somalia infestato dai pirati, il 13 dicembre 2008 inviava nel `mare dei pirati` una sua missione navale in chiave antipirateria. la missione ‘Atalanta`. Nel mare dei pirati dall`inizio del 2008 è operativo anche un dispositivo anti pirateria creato dal Pentagono e gestito dalla V Flotta USA, il `Combined Task Force`, Ctf 151. Inoltre, a pattugliare il Golfo di Aden vi sono anche navi militari del Canada, Russia, India, Giappone, Arabia Saudita, Corea del Sud, Cina, Australia e altri Paesi. Però, il primato di essersi attivata per primi nel Golfo di Aden in chiave anti pirati spetta all`Italia che intervenne nel 2005 con la fregata lanciamissili della Marina militare `Granatiere`. Sulla scia di questo primato l’Italia è rimasta tra i primi, come Paesi, ad impegnarsi militarmente, politicamente e economicamente nella lotta alla pirateria marittima. Le unità navali militati battenti il tricolore partecipano a tutte le missioni internazionali sia ‘Atalanta’ sia ‘Ocean Shield’. Un impegno questo che comporta però, per i Paesi che vi prendono parte, il dover mettere a rischio le proprie navi e uomini e, inoltre, dover sostenere dei costi non irrisori che contemplano soprattutto il mantenimento di tali navi e uomini nel mare dei pirati. Una recente stima ha calcolato che il contrasto alla pirateria al largo della Somalia comporti per la comunità internazionale costi oltre gli 8 miliardi di dollari l`anno. Una somma che si stima potrebbe raggiungere i 13-15 miliardi di dollari entro il 2015. Il costo medio per il mantenimento di ogni unità navale da guerra varia infatti dai 100mila ai 200mila dollari al giorno. La stima fatta è ripartita tra costi carburante, viveri e indennità degli equipaggi. Il computo per difetto del costo della sola missione Ue Atalanta è di circa 2 milioni di euro al giorno pari a 720milioni all’anno. All’Italia una missione di circa tre mesi di un’unità navale della Marina Militare costa circa 9 milioni di euro. Da una prima analisi di questi dati si nota subito che i costi per mantenere le diverse flotte internazionali anti pirateria marittima nel mare dei pirati sono elevatissimi. Se questi costi li si rapporta poi, ai riscatti pagati finora in un anno, per riottenere indietro navi e uomini catturati dai pirati somali, circa 150-200 milioni di dollari. A conti fatti conviene più lasciare lavorare i pirati in tranquillità piuttosto che ‘infastidirli’. Perché di fatto è questo che fanno queste navi con la loro presenza nel mare al largo della Somalia danno solo fastidio ai pirati e null’altro visto che questi continuano a ‘lavorare’. Purtroppo questo ragionamento è solo utopistico in quanto non si può lasciare di certo che i pirati spadroneggino nelle acque al largo della Somalia almeno indisturbati. Per cui si sta cercando allora, in qualche modo, di alleggerire l’impegno internazionale ricorrendo per esempio, a pattugliamenti aerei anche con droni, gli aerei senza pilota, che hanno una lunga autonomia e capaci di operare sia di notte sia di giorno. Dall`inizio del loro impiego, da qualche mese, grazie al loro operato è stato possibile catturate due navi madri pirati e una dozzina di predoni del mare. Il ricorso ai droni è dettato anche dal fatto che l`area a rischio, che inizialmente era di 2,5 milioni di miglia quadrate, ora è praticamente raddoppiata. I pirati ormai sequestrano i mercantili anche in mare aperto a centinaia di miglia di distanza dalla costa somala. Le navi catturate sono poi dirottate verso le loro roccaforti lungo le aree costiere del Puntland. Qui le gang del mare, che controllano l’attività criminale, usano gli ostaggi come scudi umani. Un fatto questo adottato in quanto i pirati somali sanno bene che per la comunità internazionale tentare di liberare gli ostaggi sequestrati e le navi è considerato rischioso. A frenare è la paura che i pirati possano uccidere gli ostaggi per ritorsione. Ostaggi che va ricordato, per i pirati valgono milioni di dollari ma solo da vivi. Solo nel 2010 i predoni del mare hanno catturato quasi 1.200 marinai e 53 imbarcazioni. Mentre tuttora trattengono in ostaggio almeno una quarantina di imbarcazioni e almeno 700 marittimi. Si tratta di marinai di diversa nazionalità per lo più filippini, ma ci sono anche ucraini, rumeni, indiani, egiziani, cinesi e anche alcuni europei. Tra gli europei due sfortunati coniugi danesi e i loro tre figli minorenni e undici italiani. Tutto ciò sembra dimostrare ancora di più quanto sia infruttuoso lo sforzo che la comunità internazionale sta compiendo. Come a nulla sembra essere valso, nella lotta alla pirateria somala, anche il fatto che le varie marine militari delle missioni internazionali abbiano, dal mese di agosto 2008 e fino al maggio 2010, arrestato almeno 1.090 presunti pirati, mentre almeno 64 sono stati uccisi e almeno altri 24 sono rimasti feriti. Un duro colpo alla pirateria somala si potrebbe pensare di aver inferto visto che la popolazione pirata è stimata composta da non più di 1500 uomini divisi in 7 gang del mare. Ed invece, ancora una volta non è così. Degli oltre mille pirati catturati solo 480 sono stati detenuti o trasferiti per il procedimento penale. Gli altri sono stati rilasciati. Mentre il vuoto nei ranghi subito è stato sopperito da altri somali disposti a prendere il posto di quelli catturati. Una spiegazione la si trova nel fatto che è la povertà della Somalia e la mancanza di qualsiasi economia di lavoro a spingere la gente a fare il pirata. Un’altra verità è che chi si dedica alla pirateria marittima non ha paura di essere fatto prigioniero. Primo perché sa bene che non tutti i Paesi sono disposti a processarli e tantomeno a detenerli. Processare i pirati catturati è di pertinenza del Paese dell`imbarcazione attaccata o della nave da guerra intervenuta per sventare l`assalto. Però, possono processare i pirati anche Paesi che abbiano altri legami con il caso, ad esempio la nazionalità di membri dell`equipaggio attaccato. Quasi sempre questi Paesi si rifiutano di processare i pirati o fanno sapere di non poterlo fare nei tempi richiesti. Secondo essi sanno che se imprigionati vivranno meglio di come vivono da liberi. Hanno solo un problema, stare attenti da che farsi catturare. I predoni del mare sanno che se vengono catturati da una nave da guerra dell’Ue il peggiore che gli possa capitare è finire in una prigione europea dove li aspetta uno standard di vita migliore che nel loro Paese. Il problema per loro si crea se a catturarli sono navi da guerra russe, indiane o cinesi. In questo caso i pirati catturati sanno che verranno consegnati alle autorità dello Yemen, dove rischiano invece, di ricevere severe punizioni per quello che hanno fatto, compresa la pena di morte, e dove le condizioni di detenzione sono molto più severe che nelle carceri europee. A fronte di questa lotta alla pirateria appare sconsolante il fatto che il rilascio di ogni nave catturata è successiva solo al pagamento di un riscatto milionario. Un fatto questo che evidenza un particolare: La doppiezza del comportamento dei Paesi che partecipano alla lotta alla pirateria somala. Paesi che mentre da un lato si impegnano in costose missioni navali internazionali di pattugliamento anti pirateria nel mare del Corno d`Africa dall’altro trattano con gli stessi pirati che combattono e scendendo a patto con loro pagando un riscatto per ottenere il rilascio di quelle navi che avrebbero dovuto difendere e che invece, hanno lasciato catturare. Riscatti che poi, per giunta in parte vanno a finanziare la stessa attività piratesca che poi, questi Paesi cercano di contrastare. Una vera e propria contrapposizione.
Ferdinando Pelliccia