In questi giorni è in corso il ‘viaggio’ nel Corno D’Africa di Margherita Boniver. In concomitanza della missione diplomatica dell’inviato speciale per le emergenze umanitarie del Ministro degli Esteri, Franco Frattini in Tanzania si riparla dell’instaurazione di un tribunale internazionale per giudicare i pirati somali. Ed è proprio il problema di poter processare e detenere i pirati somali, catturati e condannati, ad essere uno dei maggiori crucci della comunità internazionale. Purtroppo non tutti i Paesi sono disposti a processare, e se condannati, ad ‘ospitare` nelle loro carceri i pirati somali accollandosene i relativi costi. Il costo dei processi, nelle varie corti nazionali, e della prigionia dei pirati somali condannati è stato, nel solo 2010, almeno di 31 milioni di dollari. Un fatto questo che induce molti Paesi a ritenere più conveniente rilasciare i pirati catturati piuttosto che trattenerli e giudicarli. Risulta infatti che i militari delle forze navali internazionali abbiano catturato, dal mese di agosto del 2008 e fino al mese di maggio del 2010, almeno 1.090 presunti pirati, ma che solo 480 siano ora detenuti o siano stati trasferiti per il procedimento penale in Kenya o altrove. Sono appena una settantina i pirati che sono stati finora condannati. In media la condanna è a 5/6 anni di carcere con qualche eccezione a più anni o addirittura all’ergastolo, specie se il giudizio avviene in un Paese non africano. Oltre alla detenzioni, per chi si dedica alla pirateria marittima, c’è anche il rischio di subire una condanna alla pena capitale: è il caso se il tribunale giudicante è yemenita. Nella gran parte dei casi però, molti Paesi si dicono non in grado di poter processare i pirati o fanno sapere di non poterlo fare nei tempi richiesti. Ed è proprio per la quasi certezza dell’impunità che la pirateria marittima continua a prosperare lungo una delle rotte commerciali più trafficate del mondo, quella che unisce l’Asia all’Occidente.
Una rotta lungo la quale passa la metà dei traffici commerciali, a mezzo di container, e il 70 per cento del traffico di petrolio mondiale. Un mare che riveste importanza anche per le telecomunicazioni. Attraverso esso vi passa infatti, un cavo sottomarino di 17mila km in fibra ottica che collega Paesi come Sudafrica, Tanzania, Kenya, Uganda e Mozambico con l`Europa e l`Asia. Questo accade soprattutto per il fatto che il quadro giuridico è inadeguato. Le leggi contro la pirateria risalgono a più di 200 anni fa e l’unico trattato corrente che definisce la pirateria un crimine internazionale è la ‘Convenzione ONU sulla Legge del mare’ che però, non è stata recepita da tutti i Paesi. Per cui sono pochi i Paesi che hanno adottato apposite leggi, negli ordinamenti nazionali, per poter perseguire legalmente i pirati catturati a largo delle coste somale. L`estendersi del pericolo dei pirati somali ha indotto diversi giuristi e uomini politici di tutto il mondo a lanciare l`idea di creare un apposito Tribunale Penale Internazionale, come quello già operante all`Aja per i crimini di guerra, contro l`umanità e il genocidio. Un’istanza giuridica all’ONU in tal senso è stata proposta dalla Spagna nel dicembre 2010 con il sostegno di NATO e Ue. L’idea dell’instaurazione di un Corte internazionale che giudichi gli autori degli atti di pirateria è anche fortemente sostenuta persino dalla Russia. Purtroppo questa idea non ha trovato consensi in tutti i Paesi. Tra quelli contrari spicca inspiegabilmente la stessa Somalia. La creazione di un tribunale internazionale ad hoc per la pirateria permetterebbe anzitutto la ripartizione dei costi tra tutta la comunità internazionale e questo renderebbe più propensi gli stati alla detenzione dei pirati; creando poi un organo giuridico specializzato sulla questione e difficilmente i pirati verrebbero rimessi in libertà sulla base di cavilli tecnici o di richieste di asilo, oppure per il fatto che a volte il processo non può essere celebrato perché mancano i testimoni, cioè i marinai dei mercantili attaccati che hanno ripreso il mare in quanto sono anzitutto dei lavoratori. Comunque sia la soluzione al fenomeno della pirateria marittima deve e verrà di certo dalla comunità internazionale. Proprio in questi giorni si stanno decidendo le strategie e i metodi da usare contro la nuova filibusta nel mare del Corno D’Africa e Oceano Indiano. Pertanto, appare inutile, quanto insensato spingere verso scelte individuali che si sa non porteranno alcun giovamento se non a chi sa cosa ne vuole ricavare. Anche perché l’istituzione di un tribunale internazionale non ridurrebbe l’impegno economico e navale della comunità internazionale è quindi non è la soluzione al problema della sicurezza marittima. Un problema che costringe gli armatori a pagare forti premi assicurativi e ad ingaggiare guardie private armate sulle navi dei Paesi che ne consentono l’impiego. Alla fine viene spontaneo pensare che forse pagare il riscatto ai pirati è il male minore. Uno stato di incertezza che rendere il tutto un vero e proprio rompicapo. Presunti pirati somali sono in carcere negli Stati Uniti, in Olanda, in Francia, nello Yemen, India, Seychelles, Corea del Sud e in Germania, ma il grosso dei pirati arrestati dalle forze navali internazionali è al momento incarcerato in Kenya. Nel 2009 il Kenya infatti, ha stipulato dei trattati bilaterali con una serie di Paesi quali Cina, Usa, Canada, Regno Unito e Danimarca, oltre che con l’Unione Europea per celebrare i processi a carico dei presunti pirati davanti al tribunale di Mombasa. Un ‘disturbo’, quello del Kenya, totalmente finanziato dalla comunità internazionale. Nello stesso anno venne prospettata anche la possibilità di firmare un accordo simile anche con la Tanzania, ma poi non se ne fece più nulla. I motivi restano sconosciuti, ma con molta probabilità non si è trovato un accordo sui costi. Nell’aprile del 2010 però, un giudice kenyano, stabilendo che le leggi nazionali non sono applicabili e dunque che i tribunali del Kenya non sono competenti a decidere sui casi di pirateria avvenuti in acque internazionali o in acque territoriali di Paesi terzi, ha rimesso tutto in discussione. A questo punto si è deciso di investire della questione direttamente le Nazioni Unite. In virtù di questo lo scorso mese di gennaio, Jack Lang, inviato speciale del segretario dell’ONU, Ban Ki moon, dopo un attento studio ha consegnato un rapporto. Nel documento si consiglia di creare dei tribunali ad hoc per i pirati direttamente in Somalia, compreso il semi-autonomo stato del Puntland e la Repubblica del Somaliland. Negli ultimi mesi già molti pirati somali sono stati portati in catene nelle due regioni somale dove nelle carceri, per fare spazio ai pirati, le autorità locali hanno dovuto rilasciare diversi detenuti, per lo più criminali di basso livello. Questo in attesa della costruzione di almeno tre nuovi carceri finanziate dalla comunità internazionale. Per cui è chiaro che il meccanismo è stato già attivato e rimettere in discussione una vecchia ipotesi sarebbe solo un’altra perdita di tempo e soprattutto di denaro. Nel frattempo, mentre la missione anti pirateria dell’Ue ‘Atlanta’ e quella NATO ‘Ocean Shield’ si ‘affannano’ e cercano di rendere sicure le acque dell’Oceano Indiano e del mare del Corno d`Africa. I pirati somali trattengono la petroliera Savina Caylyn e il cargo Rosalia D`Amato. Si tratta di due navi italiane trattenute in ostaggio, la prima dall’8 febbraio e la seconda dal 21 aprile scorsi. In mano ai pirati somali, trattenuti in ostaggio, oltre alle due barche italiane, anche 11 marittimi italiani, 5 sulla petroliera e 6 sulla motonave. Per il loro rilascio come è consuetudine i predoni del mare chiedono un riscatto. Dopo i primi timidi tentativi di avviare delle trattative tra i pirati e la società di navigazione proprietaria delle due navi tutto sembra essersi arenato. Ormai è dal 18 giugno scorso che non si registrano più contatti con la Savina e dal 23, sempre di giugno, con la Rosalia. Un chiaro segnale che la situazione è in una fase di stallo e qualcosa non va.
Ferdinando Pelliccia