Con due navi, la Savina Caylyn e la Rosalia D’Amato, una da 9 mesi e l’altra da 6 mesi, l’Italia detiene un triste primato. Quelli delle due navi italiane sono infatti, i sequestri più lunghi che hanno coinvolto navi battenti bandiera europea.

Dopo tanto dire e poco fare siamo arrivati al 264 giorno di sequestro per i marittimi della Savina Caylyn. Quasi 9 mesi di stenti e dolori per le vittime, onesti lavoratori che si sono trovati a vivere un inimmaginabile inferno. Una tragedia vissuta nelle acque dell’oceano indiano, lontano dalla quotidianità della gente comune che spesso ignora le cause e gli effetti di un fenomeno che si è radicato negli ultimi anni e che ha preso proporzioni gigantesche, tanto da mettere in difficoltà la già precaria economia mondiale. La Savina Caylyn di proprietà della Fratelli d’Amato di Napoli, è la seconda nave battente bandiera italiana ad essere sequestrata, la prima fu il rimorchiatore Buccaneer di proprietà della Micoperi di Ravenna (4 mesi di sequestro), e seguita poi a ruota dopo poche settimane, dalla Rosalia D’Amato della Perseveranza di navigazione Spa di Napoli, sequestrata dal 21 Aprile scorso. Se gli equipaggi stanno vivendo un inferno anche per i loro famigliari non è da meno. A volte è difficile capire ciò che è meglio fare, la strada giusta da seguire pare essere un miraggio, forse dalle proprie decisioni potrebbe dipendere il benessere delle persone che più si amano. Infatti nei primi quattro mesi da quel maledetto giorno che vide la Savina Caylyn arrembata e sequestrata dai criminali del mare, i parenti si erano celati dietro a un muro di silenzio, tra angosce dilanianti e rassicurazioni di un tempestivo epilogo da parte dell’armatore. Rassicurazioni che non hanno trovato ragione e che hanno provocato ancora una maggiore disperazione, tanto che sono state organizzate manifestazioni, fiaccolate, appelli, cercando di trovare appoggio nell’opinione pubblica e una maggiore sensibilità da parte delle Istituzioni pressoché assenti e ricche di risposte “soddisfacenti”: “non sappiamo nulla”.
Il tempo passava e i pirati diventavano sempre più spietati. Clamorosi appelli giungevano dalla petroliera, dove gli ostaggi subivano ogni sorta di maltrattamento. Mentre il nostro Ministero degli Esteri taceva, anche a causa dell’impossibilità di intervenire politicamente in quanto la Somalia non ha un governo dal 1991 e vive un frazionamento di fatto, tra i vari clan, l’armatore viene sollecitato con un sit-in di parenti, amici e persone varie che si dedicano alla causa, per settimane, e a quel punto sembra che si arrivi a un possibile accordo di cui non vogliamo nemmeno conoscere i termini. Le famiglie ansiose ma in un certo senso tranquillizzate dalle nuove parole pronunciate dall’armatore levano le tende e rientrano a casa, in attesa della soluzione finale e che a distanza di quasi un mese, non arriva. Anzi, arriva una telefonata allarmante da bordo alla redazione di Liberoreporter. Il direttore di macchine Antonio Verrecchia e il primo ufficiale di coperta Eugenio Bon, pregano il popolo italiano di aiutarli e si appellano a Istituzioni e armatore dicendo “fate qualche cosa per noi, non ce la facciamo più”. Davanti all’ennesima richiesta di aiuto, grazie alla collaborazione di “chi l’ha visto?” e alla straordinaria professionalità di Federica Sciarelli , mercoledì 26 ottobre, è andata in onda una diretta con la viva voce degli ostaggi, cosa mai avvenuta in passato anche perché mai nessuna nave occidentale è rimasta in mano ai pirati ben 9 mesi. Oltre ogni limite potremmo dire. Il 28 ottobre, il sottosegretario Mantica, di ritorno dalla Somalia, ha indetto una conferenza stampa, dove dichiarava che insieme al presidente della regione del Puntland, hanno lanciato un appello via radio ai pirati, chiedendo di far arrivare aiuti umanitari e medici sull’imbarcazione. E’ poco? Vedremo a che porterà, forse è sempre meglio di “non sappiamo”. Quando i riflettori si accendono, anche i giornalisti che non si sono mai avvicinati al problema di turno, si buttano cercando di fotografare il momento, riuscendo a dare sfumature di ogni tipo a un dramma, in questo caso, che invece non si è risolto ancora oggi. Ad effetto yo yo, si leggono e si sentono notizie del tutto contrastanti, e questo fa male agli ostaggi. Il dovere di un giornalista è di riportare i fatti, guardando anche in prospettiva e in profondità, analizzando il problema in tutte le sue sfaccettature. Certamente non si può passare sopra ad un appello, o ammorbidirlo, o cambiarne il sapore. Dall’altra parte del telefono ci sono delle vite appese a un filo. LiberoReporter da anni segue le vicende legate alla pirateria marittima, con maggiore forza i casi battenti bandiera tricolore. Nella scaletta delle priorità c’è la precedenza a chi, chiuso su una nave, vive in stato di estrema sofferenza e terrore. Certo, in questo modo non ci si attira le simpatie di nessuno, tanto meno dell’armatore, e di conseguenza si parla di clamore a scopo di visibilità. Una visibilità che non porta però di fatto, a un interesse del giornale e di chi scrive, ne a nessun ritorno economico, ma solo a tanta fatica, responsabilità e onerosi costi. Chi riceve la massima attenzione è un lavoratore del mare, un uomo, un padre, un figlio, un fratello, che ha il diritto di vivere, non ci sono interessi ne politici ne golose vette da scalare. Nonostante le arrabbiate voci che ci giungono sino a qui, la nostra etica non ci permette di omettere o di “sfrangiare”. Inutile scaricare sugli altri il peso delle responsabilità e delle scelte. Gli armatori ci devono pensare prima di far partire le navi a ciò che potrebbe accadere. Lo dimostra il recente arrembaggio subito dalla Montecristo, che ci ha lasciati con il fiato sospeso per 24 ore. Quest’ultima era dotata di presidi di sicurezza che hanno permesso una risoluzione rapida e indolore. Per quanto riguarda i pirati si potrebbero scrivere collezioni letterarie a riguardo e per tanto che si possa essere consapevoli delle loro finalità criminali, con delle navi sotto sequestro, non mi pare il momento propizio per studiare/divulgare strategie che potrebbero innervosire ulteriormente chi ha “il coltello dalla parte del manico”. L’incredibile è che dei criminali però, si parla solo nel momento in cui si è nell’emergenza, mettendo a repentaglio chi è oggetto di scambio. Anche qui ci sono gravi responsabilità da parte delle Istituzioni, e qui mi rivolgerei anche alla comunità internazionale, se il pagamento di un possibile riscatto è illegale, è necessario rendere illegale la navigazione di navi che non sono dotate di sistemi di sicurezza che garantiscano ai marittimi di poter rientrare nelle loro case, dalle loro famiglie. Inutile accusare chi svolge il proprio dovere con la massima diligenza, meglio aprire i propri armadi e far uscire gli scheletri.