Guardie private a bordo di una nave © One Hired GunGrazie al fenomeno della pirateria marittima al largo della Somalia un settore economico internazionale non soffre dell’attuale recessione. Si tratta della cosiddetta ‘economia della sicurezza’. Un’economia legata all’industria della sicurezza che raggruppa  nel mondo centinaia di migliaia di società e di individui. Per tutti l’obiettivo è vendere protezione contro azioni malevole che attentano alla vita delle persone, alla proprietà e ad altri beni.

La nascente industria della sicurezza marittima privata non è regolamentata però, da norme e questo crea non poche perplessità. I team di sicurezza armati a bordo dei mercantili sono sempre di più presentati come la più sicura difesa contro i pirati.

Il business che questa attività, legata al fenomeno della pirateria marittima al largo della Somalia,  sta comportando, è la nascita di numerose imprese private tutte protese ad occupare un posto in un mercato che vede la domanda sempre più crescente. Si tratta della cosiddetta ‘economia della sicurezza’.

Oggi di chi offre guardie armate in mare nella maggior parte dei casi non si conosce realmente quali siano le loro procedure per ‘arruolare’ personale e quali siano le loro procedure operative standard. Non è nemmeno chiaro quali siano le loro responsabilità in caso di lesioni o morte di innocenti. Addirittura in alcuni Paesi, i governi e le società per la sicurezza marittima privata sono ​​concorrenti. Questo ad esempio è il caso dell’Italia.

In alcuni Paesi poi, i team di sicurezza, di cui gli armatori si possono servire a pagamento, per legge possono essere forniti dai militari o da società private. Purtroppo questo ha evidenziato anche una lacuna; alcuni Paesi, tra cui l’Italia e la Germania, le società per la sicurezza marittima privata non sono ancora pronte. In effetti mancano dei riconoscimenti legali necessari per poter operare su navi di bandiera.

Inoltre, esiste anche un problema giuridico legato alla presenza di uomini armati a bordo di mercantili. Alcuni Paesi nel mondo non permettono a navi con armi a bordo di entrare nelle loro acque territoriali e tantomeno di attraccare nei loro porti. Questo è il caso ad esempio dell’Eritrea, Egitto e del Sudafrica.

Nei primi due Paesi le scorte armate a bordo delle navi commerciali sono state addirittura arrestate, detenute e giudicate per introduzione illegale di armi in quel Paese. L’episodio più recente è quello accaduto nelle scorse settimane quando le forze di sicurezza egiziane hanno arrestato un tedesco e un austriaco per detenzione illegale e contrabbando di armi da fuoco. I due erano dipendenti di una società di sicurezza privata e dovevano imbarcarsi, come team di sicurezza, a bordo di una petroliera in partenza dal porto di Suez. L’episodio evidenzia le difficoltà a spostare armi e munizioni in dotazione ai team di sicurezza da un Paese all’altro. Le disposizioni adottate dal governo egiziano in merito sono molto ferree. Di fatto i team di sicurezza, militari o privati,  per poter attraversare il canale di Suez, dovrebbero consegnare le armi e le munizioni in dotazione ad un funzionario egiziano che dopo averle catalogate le chiuderebbe in una cassa. Armi e munizioni sarebbero poi, riconsegnate ai team di sicurezza alla fine della traversata.

Appare difficile pensare che  una simile ‘imposizione’ possa andar bene ad un militare.

L’Egitto non è l’unico Paese ad aver arrestato uomini dei team di sicurezza marittima. Anche in Eritrea ci sono stati episodi analoghi che hanno visto coinvolti operatori di società di sicurezza private, inglesi. In Sudafrica invece, un certo numero di comandanti di mercantili sono stati arrestati per aver avuto armi sulle loro navi e non averlo segnalato.

Molte società di security da tempo chiedono chiarimenti su quali siano i termini che consentono loro di poter entrare armati nelle acque territoriali e nei porti dei Paesi posti sulle rotte marittime che sono minacciate dai pirati.

Ora si sta lavorando per eliminare questo inconveniente.

Comunque sia, quello che è chiaro è che gli armatori si mostrano, visti i risultati insoddisfacenti delle misure antipirateria finora adottate, disposti a sostenere qualsiasi costo per difendere i ‘loro’ interessi.

Le compagnie marittime di navigazione, proprietarie dei mercantili che navigano nei mari del mondo, ritengono che il ricorso alle guardie armate a bordo sia il modo migliore per combattere il fenomeno.

Gli armatori attualmente, a causa del fenomeno della pirateria marittima al largo  del Corno D’Africa,  sono costretti a dover ‘sborsare’ enormi somme di denaro specie alle società di assicurazione per poter assicurare le loro navi che devono solcare le acque del ‘mare dei pirati’.

Queste società fanno tutte capo ai Lloyds di Londra.

Attualmente il costo di una polizza assicurativa viene contrattata dagli assicuratori con le compagnie di navigazione disciplinando i diversi casi  a seconda della tipologia del carico, del tipo di nave e della zona in cui la nave deve transitare. In questo modo si è passati dai  900 dollari al giorno, che si pagavano nel 2007, ai circa 9mila dollari che si pagano in media ai giorni nostri. In media una polizza assicurativa in grado di coprire tutti i rischi, incluso il sequestro da parte dei pirati somali, può costare dai 9mila ai 50mila dollari al giorno con un incremento sostanziale nel periodo di transito nei tratti più a rischio come il Golfo di Aden.

Alla fine però, i premi assicurativi pagati sono comunque molto superiori alle cifre versate dalle compagnie assicurative come indennizzo per il sequestro di una nave. Nel 2010 pagati indennizzi per oltre 150 mln di dollari e nel 2011 al massimo saranno di 200 mln di dollari.

Quindi si tratta di un affare vantaggioso per gli assicuratori.

Ovviamente il vantaggio c’è anche per gli armatori che se volessero evitare di fare brutti incontri dovrebbero cambiare rotta allungando i tempi del viaggio. Un cambio che costerebbe tra i 185mila e i 300mila dollari in più a viaggio.

In virtù di quanto detto appare evidente che per gli armatori pagare anche una sicurezza privata a bordo delle loro navi non è quindi un problema specie se questo comporta maggiori certezze del buon fine del viaggio.

A favorire il ricorso ai team di sicurezza a bordo delle navi commerciali è subentrata anche la consapevolezza, da parte degli armatori, che i tempi del ‘fermo’ della nave catturata dai pirati si sono prolungati e quindi è subentrato un maggiore mancato guadagno a fronte di un aumento delle spese. Pertanto, agli armatori conviene più pagare un team di sicurezza, per difendere la nave e il suo equipaggio dai pirati, che vedersi invece, la stessa ‘presa’ e poi sottostare al ricatto dei predoni del mare.

Nel conteggio del costo di un sequestro si deve infatti computare non solo la somma pagata per il riscatto, ma aggiungere ad essa anche le ‘spese accessorie’ che possono anche essere 3-4 volte superiore al riscatto pagato. In media se si pagano ai pirati 4 mln di dollari almeno altri 15 mln sono per le spese accessorie.

La compagnia assicurativa, in genere,  copre solo 3 mln di dollari.

L’idea che il ricorso ai team di sicurezza a bordo dei mercantili sia la soluzione al problema  si fonda sul fatto che finora nessuna nave con guardie armati a bordo sia stata ancora catturata.

Comunque sia, i pirati somali stanno adottando nuove strategie per poter affrontare adeguatamente questa nuova situazione. Ed è impensabile immaginare cosa possa accadere ad un operatore di una società di sicurezza imbarcato su una nave se dovesse cadere nelle mani di una delle tante gang del mare somale. Finora ha primeggiato tra i predoni del mare, il concetto che i marittimi ostaggi sono merce di scambio e come tale vengono trattati. Durante la prigionia sottopongono i lor prigionieri ad angherie di ogni tipo. In alcuni casi arrivano anche a servirsene come scudi umani per proteggersi da eventuali blitz militari. E’ inimmaginabile quello che potrebbero fare a chi li contrasta se cadessero nelle loro mani. Già ora i predoni del mare si rifanno sui lavoratori del mare che catturano per ‘punire’ l’impegno dei loro governi nella lotta alla pirateria. Ne sanno qualcosa i marittimi indiani. Almeno 50 di essi  sono ‘intrappolati’ in Somalia.  Tra questi i 17 marittimi, parte dei membri dell’equipaggio della petroliera italiana ‘SAVINA CAYLYN’ in mano ai pirati somali dall’8 febbraio scorso. Forse anche per questo la trattativa per il rilascio della petroliera si è spesso ‘impantanata’.

Ferdinando Pelliccia