Il recente caso della nave italiana ‘Enrica Lexie’ scoppiato in India ci dimostra quante insidie nasconda il  fenomeno della pirateria marittima nell’Oceano Indiano.

I pirati somali ricorrono a mille espedienti pur di raggiungere il loro scopo, che è quello di catturare una nave e il suo equipaggio per poi, chiederne un riscatto per il rilascio.

Sempre di più si servono di pescherecci catturati e trasformati in ‘navi madri’ per avvicinarsi senza  destare sospetto alle navi e poi, ghermirle.

Le ‘navi madri’ si mimetizzano facilmente con le altre navi che sono in quelle acque.

Esse di fatto sono delle vere e proprie basi pirate galleggianti con cui i predoni del mare si spingono nell’Oceano e da cui lanciano i loro barchini all’arrembaggio delle navi da catturare.

Purtroppo per chi è a bordo delle imbarcazioni, che solcano il mare nell’area a rischi pirateria, è difficile individuare queste ‘navi madri’ dei pirati come lo è anche per le forze militari dispiegate in quel mare nel combatterli o a difesa delle navi mercantili a bordo come team di sicurezza.

L’unica ‘difesa’ che le navi hanno contro questa tattica dei pirati somali è quella di avvisare che deve allontanarsi, con segnalazioni appropriate e che rispettano anche standard internazionali, l’eventuale imbarcazione sospetta in avvicinamento.

E’ ovvio che quando non si riceve una risposta da parte della barca sospetta si eleva l’allarme e si agire di conseguenza.

Quando nell’aprile del 2009 il rimorchiatore d’altura italiano ‘Buccaneer’ venne catturato nel Golfo di Aden dai pirati somali questi si avvicinarono a bordo di due pescherecci egiziani catturati due giorni prima.

Per i marittimi membri dell’equipaggio del rimorchiatore era praticamente impossibile capire se erano navi ostili o semplici pescatori anche perché allora si era ai primordi di questa tattica.

Se ne accorsero quando i proiettili sparati a scopo intimidatorio dai predoni del mare gli fischiavano ormai intorno. A quel punto era ormai troppo tardi per cercare di sfuggire all’aggressione.

Per colpa del fenomeno della pirateria marittima, che impazza nel mare del Corno d’Africa e Oceano Indiano, migliaia di marittimi, specie negli ultimi 4 anni, hanno vissuto o vivono ancora una terribile esperienza, quella della prigionia in Somalia.

Si tratta di uomini, donne e minori di diverse nazionalità che dopo essere caduti nelle mani dei pirati somali, che hanno catturato la nave su cui erano imbarcati e dopo averla dirottata verso le coste somale del Puntland dove è sorta la moderna Tortuga, sono stati trattenuti in ostaggio, per mesi se non anni, venendo trattati come animali in gabbia in attesa che qualcuno pagasse un riscatto in cambio del loro rilascio.

Una prigionia, che bene o male, in tanti hanno superato, ma da cui  altri invece, non vi hanno fatto ritorno.

Queste persone, marittimi e anche turisti–velisti, sono tutte vittime di un rapimento a scopo estorsivo.

Milioni di dollari  sono infatti, entrati nelle casse delle gang del mare che, al largo della Somalia e Oceano Indiano assaltano i mercantili, le petroliere, le barche da pesca e gli yacht trasformando lo status di chi vi è a bordo in ostaggi.

Uomini, donne e minori che si vedono di punto in bianco trasformati in ‘oggetto’ di scambio e a volte in scudi umani.

Quando i pirati somali trasformano la nave catturata in ‘nave madre’ costringono il suo equipaggio a rimanere ai propri posti per governarla.

Si tratta di una tattica a cui vi ricorrono i predoni del mare, in maniera più continua rispetto al passato, per sfuggire anche ai controlli da parte delle autorità regionali e delle flotte militari internazionali.

Questi ultimi, che, in quel mare sono intervenute in missione di contrasto al fenomeno,  nell’ultimo anno  hanno aumentato  la pressione nei loro confronti.

Per combattere questo nuova tattica dei predoni del mare, le navi da guerra, delle varie missioni internazionali anti pirati, effettuano senza distinzioni continui controlli in mare delle navi che incrociano e spesso la loro attività viene premiata.

Difficile per i pirati somali, una volta scoperti, riuscire a sfuggire alla nave da guerra.

A volte l’inseguimento dura anche delle ore, ma la nave pirata non viene mollata dalla nave da guerra finchè i pirati a bordo non si arrendono e vengono arrestati.

Sempre più spesso però, i banditi del mare si servono dei marittimi, membri dell’equipaggio della nave, come scudi umani contro eventuali blitz militari.

Capita, a causa di questo comportamento criminale dei pirati somali, che si possano registrare anche delle vittime tra i marittimi-ostaggi nel corso dell’intervento della nave da guerra.

Purtroppo questo è uno dei  prezzi da pagare se si vuole debellare in maniera definitiva il fenomeno della pirateria marittima nel mare del Corno
d’Africa e Oceano Indiano.

Finora, a causa di freni e preclusioni, un pugno di predoni del mare, sono poco più di un migliaio i somali che compongono le gang del mare, ha tenuto in scacco la comunità internazionale prendendosi anche gioco di chi è andato li a combatterli.

Dall’estate scorsa però, la musica sembra essere cambiata e nella lotta al fenomeno i risultati si stanno vedendo.

Sono sempre di meno le navi catturate. Dalle 2-3 a settimana si è passate negli ultimi dieci mesi ad 1-2 al mese e a volte a zero navi catturate.

Prigionieri in Somalia vi sono attualmente poco meno di 300 marittimi membri degli equipaggi di una decina di mercantili, e altrettanti barche da pesca catturate e ancora trattenute. Un bottino, che visto il periodo di magra, le gang del mare cercano di capitalizzare al massimo.

Le trattative per negoziare il riscatto sono diventate infatti,  più difficili.

Un risultato che è dipeso da una migliore ottimizzazione e coordinamento dei mezzi militari e degli uomini utilizzati nel contrasto alla pirateria marittima.

Un contrasto che costa alla comunità internazionale almeno 2 mld di dollari l’anno.

Quello che ha però, sortito l’effetto deterrente più forte è stato l’imbarco di team di sicurezza armati a difesa delle navi. Alla loro vista i pirati somali cambiano rotta.

Ferdinando Pelliccia