manifesto_salviamo_i_nostri_maròUno spunto per parlare ancora della vicenda dei due marò italiani è data dalla nota dell’ex sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri in cui si legge: “Se i due marò italiani si trovano in stato di arresto nelle mani delle autorità indiane, la colpa non può essere attribuita al Governo Monti e alla nostra diplomazia. E’ l’idea alla base del decreto missioni nel giugno 2011, che prevedeva la possibilità che navi mercantili italiane reclutassero militari italiani con funzioni di sicurezza privata antipirateria, che si è rivelata ingenua, un pò velleitaria, sicuramente sbagliata. In questo modo essi devono assoggettarsi alle decisioni di un comandante civile, si ritrovano equiparati al rango di ‘contractors’ e, di fatto, costretti a dipendere da una catena di comando inadatta ad affrontare la complessità degli scenari giuridici e politici internazionali. Ovviamente l’obiettivo, adesso, è uno solo: fare tutto il possibile per riportare a casa i due marò. Ma bisogna riflettere sul fatto che un soldato in servizio è sempre
un pezzo dello Stato italiano. La presenza di militari sui mercantili si è rivelata sbagliata e pericolosa per loro e per l’Italia perché è una soluzione
ibrida ed ambigua che ha esposto il paese alle conseguenze di una grave crisi diplomatica. Si modifichi subito la norma del decreto missioni; si intensifichi l’azione di sorveglianza marittima da parte delle navi militari; si riprenda in grande stile l’iniziativa internazionale per la Somalia; le istituzioni nazionali e le organizzazioni multilaterali facciano di tutto per rendere più efficace la lotta alla pirateria. Ma lasciamo ai contractors il mestiere dei contractors e mettiamo in sicurezza i mari, i nostri soldati e la nostra politica estera”.

Si tratta di una precisa e chiara illustrazione di quanto è accaduto e perché è accaduto.

Da quando il 19 febbraio scorso due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono in mano alle autorità locali indiane dello
stato del Kerala, che vogliono processarli per duplice omicidio, la diplomazia italiana è fortemente impegnata a sostenere l’estraneità dei marò dai fatti contestatigli.

Nel Paese asiatico dal 22 febbraio scorso si trova il numero due della diplomazia italiana, il sottosegretario agli Esteri, Staffan de Mistura. Prima di lui in India è giunto un team interministeriale che è tuttora all’opera. Successivamente dall’Italia sono giunti due ufficiali dei RIS per seguire le varie fasi della perizia balistica in corso su armi e munizioni in dotazione ai due soldati.

Il 28 febbraio scorso si è anche recato in visita ufficiale il capo della diplomazia italiana, il ministro degli Esteri, Giulio Terzi.

De Mistura vanta una lunga esperienza diplomatica avendo lavorato per 36 anni per varie agenzie ONU ed essere stato rappresentante speciale ONU per l’Iraq e poi per l’Afghanistan. Un lavoro che lo ha portato in molti dei luoghi più problematici ed instabili del mondo acquisendo un’enorme esperienza.

Terzi è uno dei decani della diplomazia italiana.

Nonostante tutto in Italia, nei loro confronti, si è levata una campagna contro.

La principale accusa è stata quella di essere stati troppo molli con l’India.

Nulla di più falso.

L’India è in una posizione predominante in quanto ha praticamente nelle sue mani, una nave italiana e ben 11 cittadini italiani. Gli indiani si sentono in diritto di fare quello che hanno fatto finora e forse chiunque altro al loro posto avrebbe fatto lo stesso. Inoltre, opinione pubblica e media locali si sono entrambi schierati contro gli italiani.

Da quando questa vicenda è venuta alla ribalta in tutto lo stato del Kerala si registrano infatti, continue manifestazioni di protesta anti-italiana che si sospetta non del tutto spontanee e apolitiche.

In questo contesto si inserisce infatti, l’appuntamento elettorale che si terrà a metà marzo, il 17 e 18, nello stato federale indiano. Si tratta delle elezioni suppletive per coprire un seggio vacante per la morte di un deputato di maggioranza.

Nello stato federale del Kerala è forte l’antagonismo politico tra il ‘partito comunista marxista indiano’, fino a poco tempo fa al potere nello stato, e il ‘National Congress’ al potere nel Paese e dallo scorso anno.

I comunisti, che sono alla ricerca di una rivalsa politica, stanno ‘cavalcando’ il malumore e il dissenso che l’opinione pubblica locale sta manifestando da quando è scoppiato il caso.

Tutto questo ha messo a dura prova l’operato del governatore dello Stato, Oommen Chandy che è accusato di favorire l’Italia e non tutelare gli interessi dei pescatori del Kerala.

Accuse pesanti specie se fatte in campagna elettorale da cui Chandy deve difendersi. Questo ha comportato che alla fine, con molta probabilità, le azioni compiute dagli indiani sono state accentuate dalla volontà politica di voler dimostrare all’opinione pubblica locale che quanto affermato dall’opposizione non ha fondamento.

In questo clima ogni azione o affermazione da parte dell’Italia è improntata alla prudenza. Ogni incomprensione potrebbe infiammare ancor di più gli animi e comportare rischi per i due militari italiani che si trovano in mano alle autorità locali indiane.

Ed ecco perché chi parla di mollezza della diplomazia italiana si sbaglia ed invece, dovrebbe dire Bravo Giulio Terzi, bravo  Staffan de Mistura.

Lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha affermato che: “Per risolvere positivamente la vicenda dei due marò italiani detenuti in India bisogna evitare qualsiasi elemento di incrinatura dei rapporti tra Roma e Delhi e agire con il massimo riserbo sul piano giudiziario, politico e diplomatico.

Roma sostiene che la giurisdizione sul caso è italiana, per New Delhi è indiana.

Le trattative per giungere ad un buon fine della vicenda sono quindi lunghe e laboriose.

Almeno fino al 15 febbraio scorso nessuno aveva mostrato perplessità in merito all’esigenza del governo Berlusconi e del Parlamento, che insieme alla Confederazione italiana degli armatori, Confitarma avevano fortissimamente voluto i militari italiani a bordo delle navi di bandiera che navigano nelle acque internazionali infestate dai pirati.

Un provvedimento che doveva portare, secondo gli intenti, giovamento anche ai lavoratori del mare che ogni giorno a bordo delle navi italiane, di cui sono membri dell’equipaggio, solcano i mari infestati dai pirati.

Poi è scoppiato il caso dei due marò in carcere nello stato federale del Kerala con l’accusa di aver causato la morte di due pescatori indiani uccisi perché scambiati per pirati al largo delle coste indiane.

Una vicenda che in Italia fin dall’inizio ha infiammato gli animi ed ora sembra anche seguire una certa logica politica.

In Italia le scorte armate sulle navi di bandiera sono contemplare dall’articolo 5 del decreto legge del 12 luglio 2011 che contempla le direttive, le regole di ingaggio e le misure di contrasto emanate dal ministero della Difesa.

Un decreto-legge che è stato poi, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2011, n. 130

Successivamente con un decreto ministeriale, il primo settembre del 2011, il dicastero della Difesa ha anche individuato le aree a rischio pirateria marittima, la High Risk Area, HRA.

Nel decreto ministeriale sono definiti i confini geografici che individuano l’area del mondo ritenute pericolose.

Senza questa precisazione l’articolo 5 del decreto legge del 12 luglio 2011 non poteva essere mai esecutivo.

Nel mese di ottobre successivo veniva poi, siglata una convenzione tra Ministero della Difesa e la confederazione armatori italiani, Confitarma.

Alla fine i militari italiani imbarcati a difesa dei mercantili battenti il tricolore, e che dovevano operare nel quadro delle risoluzioni ONU relative al contrasto alla pirateria marittima, si sono ritrovati a fare,  in poche parole, i ‘guardiani’ di  navi commerciali.

Grazie ad una legge fatta male i militari della Marina sono stati coinvolti in una dinamica di ‘sicurezza sussidiaria’, che è più adatta invece, ad un privato.

Alla fine alla prima difficoltà i nodi sono venuti tutti al pettine evidenziando l’incompletezza della legge.

La legge 130 del 2011 infatti, è nata incompleta ed ora l’Italia ne sta pagando le conseguenze.

Di fatto la presenza di militari italiani a bordo dei mercantili di bandiera si è rivelata  una scelta sbagliata e pericolosa per loro e per la stessa Italia.

Alla fine, per il fatto che essi si sono dovuti adattare alle decisioni prese dal comandante della Enrica Lexie, Umberto Vitelli, un civile, essi si sono ritrovati equiparati al rango di guardiani di navi.

Di questo ormai se ne sono resi conti tutti tanto è vero che dal  28 febbraio scorso la Commissione Difesa del Senato ha anche avviato un
approfondimento sullo stato di attuazione della normativa per il contrasto della pirateria con l’impiego di Nuclei militari di protezione, NMP, a bordo di navi commerciali.

L’esame, reso di particolare attualità dal tragico incidente verificatosi in India, prevede anche una specifica indagine conoscitiva sulle disposizioni dirette a contrastare gli assalti di pirati a navi mercantili con particolare riferimento alla situazione nel Corno d’Africa e nell’Oceano Indiano.

Ora che la situazione si è complicata sembra che si siano svegliati tutti.

La legge 130 del 2011 è una legge che è figlia di ben 4 disegni di legge presentati nel corso degli anni alla Camera e al Senato.

Tre sono di parlamentari del Pdl e una del Pd, tutti però, concernenti il possibile imbarco di personale armato sulle navi commerciali italiane.

In Parlamento molto tempo prima però, era stata presentata anche una proposta di legge, la n. 3406, ‘Disposizioni concernenti lo svolgimento di servizi di vigilanza privata per la protezione delle navi mercantili italiane in alto mare contro gli atti di pirateria’ di cui sono promotore, che prevede la possibilità degli armatori di imbarcare personale armato incaricato della sicurezza delle navi’, che prevedeva invece, nello
specifico l’impiego di guardie armate private a bordo delle navi commerciali italiane.

L’idea originaria era infatti, che si poteva ricorrere all’impiego di guardie armate private in operazioni di scorta ai mercantili italiani nel mare infestato dai pirati somali, come accade per altri Paesi europei come Spagna, Germania e Inghilterra.

L’idea è stata poi, pian piano fatta propria da diversi politici italiani, forse solleticati dagli armatori e da qualche graduato della Marina Militare, e alla fine, quando l’Italia ha deciso di difendere le sue navi mercantili dagli attacchi dei pirati,  la vecchia idea è stata superata da una nuova.

Ed è arrivato il via libera del governo Berlusconi e dell’allora ministro alla Difesa, Ignazio La Russa a poter imbarcare militari della marina o personale privato armato, a bordo delle navi mercantili italiane.

Successivamente però, per la mancanza di norme che consentano l’impiego di guardie private a bordo dei mercantili italiani, il loro imbarco, almeno armati, è stato rinviato lasciando il campo libero solo ai militari.

In Italia in effetti manca un decreto che riconosca la figura professionale del contractor.

Un provvedimento questo, che deve venire dal ministero dell’Interno e serve a regolarne l’attività.

A quel punto rimanevano come unica risorsa i militari.

La Marina Militare entusiasta subito annunciò che metteva a disposizione degli armatori  60 militari della Marina, gli specialisti del Reggimento San Marco, suddivisi in 10 nuclei, ciascuno da 6 elementi dotati di armamenti adeguati ad affrontare l’emergenza pirateria marittima.

Questi nuclei costituirono i ‘Nuclei Militari di Protezione’, NMP.

Veniva anche stabilito che l’onere del costo per l’utilizzo dei militari era a totale carico degli armatori, circa 3mila euro al giorno per nucleo.

In poche parole agli armatori veniva dato modo di poter ‘affittare’ i militari italiani per garantirsi la sicurezza delle proprie navi.

Inoltre, veniva stabilito che non sarebbe stato alcun vincolo gerarchico nei confronti dei civili, né del comando della nave.

I militari, impiegati nel servizio scorta, rispondono a un comando strettamente militare che è basato a Gibuti.

Per tutti loro, le regole di ingaggio si basano sul principio di autodifesa, cioè il ricorso dell’uso della forza solo quando sarà necessario.

Il provvedimento, che allora ha ‘unito’ governo, parlamentari di maggioranza e opposizione, e molti armatori, ora fa registrare invece, da tutti i politici italiani un coro unanime di critica all’operato dell’attuale governo e del ministro degli Esteri, Giulio Terzi.

Ferdinando Pelliccia