maro_altrI due sottoufficiali di Marina del Reggimento San Marco,  Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono da ieri in carcere a Trivandrum in India.

La notizia in Italia ha infiammato ulteriormente il dibattito scoppiato al nascere del caso. I due specialisti di marina sono parte di team di sicurezza militare imbarcato a bordo di una nave battente bandiera italiana, la MN Enrica Lexie della società armatrice italiana, la F.lli Amato di Napoli, la stessa della Savina Caylyn. Gli armatori italiani posso chiedere alla Marina Militare di poter imbarcare a bordo delle loro navi di bandiera dei militari italiani per ‘difenderle’ dai pirati somali quando attraversano aree a rischi individuate da un decreto ministeriale nel settembre scorso. Questa opportunità è data loro da una legge italiana, la 130 del 2011. Una legge fortemente voluta da una parte del Parlamento e varata dal governo Berlusconi.

Una convenzione poi, siglata tra ministero della Difesa e Confederazione armatori italiani, la Confitarma, siglata l’ottobre scorso ha suggellato il tutto. Per l’armatore il servizio ha un costo che accetta di pagare quando sottoscrive il modulo di adesione predisposto e composto di sei pagine prestampate. Per ogni militare viene corrisposto la somma di 500 euro al giorno. In questo modo gli armatori possono disporre, a bordo della loro nave, di questi team di sicurezza definiti Nuclei Militari di Protezione, NMP. Il piano di impiego degli NMP è abbastanza articolato e leggendolo si evince che prevede anche che le navi scortate seguano anche rotte particolari in modo da evitare interferenze con la giurisdizione degli stati costieri.

Secondo Confitarma il provvedimento era necessario per ‘difendere’ le navi italiane. Ogni anno nell’Oceano Indiano vi sono quasi 2mila transiti di navi battenti il tricolore o connessi a interessi nazionali. I transiti nel solo Golfo di Aden sono di circa 900  navi  italiane all’anno, e queste sono le navi italiane che ogni giorno si trovano nell’area più a rischio pirateria marittima. Il fenomeno della pirateria marittima al largo delle coste somale e Oceano Indiano ha colpito direttamente l’Italia con i sequestri del rimorchiatore d’altura ‘Buccaneer’ della petroliera ‘Savina Caylyn’ e MV ‘Rosalia D’Amato’. Si tratta di sequestri che si sono risolti dopo lunghi mesi di prigionia per i marittimi membri degli equipaggi delle navi catturate e solo dopo il pagamento di un riscatto. Attualmente un’altra nave italiana, la ‘Enrico Ievoli’ è in mano ai predoni del mare somali dallo scorso mese di dicembre.

La motivazione è più che giusta.

Purtroppo il problema di fondo è che la legge 130 è nata incompleta ed ora l’Italia ne sta pagando le conseguenze. Inoltre, forse sarebbe un bene tenere fuori da tutto questo la Marina Militare. Una legge italiana, forse mal fatta, ha coinvolto i militari della Marina in una dinamica di ‘sicurezza sussidiaria’, che è più adatta ad un privato. Alla fine alla prima difficoltà i nodi sono venuti tutti al pettine evidenziando l’incompletezza della legge tanto è vero che in Parlamento si sta cercando di correre ai ripari. Difficile capire dove sta la ragione e dove il torto. La situazione è davvero complicata.

Comunque è certo che l’India è in una posizione predominante in quanto ha praticamente nelle sue mani, una nave
italiana e ben 11 cittadini italiani, i due marò in prigione e gli altri quattro che insieme a cinque  marittimi italiani,
parte dell’equipaggio, sono a bordo della Enrica Lexie che alla fonda in un porto indiano guardati a vista da navi militari indiane. Quanto accaduto finora era inevitabile. Gli indiani si sentono in diritto di fare quello che hanno fatto finora e forse chiunque altro al loro posto avrebbe fatto lo stesso. Qualcuno il 15 febbraio corso al largo delle loro coste meridionali ha ucciso due pescatori mentre si trovavano a bordo di un peschereccio forse scambiandoli per pirati somali.

E’ molto comune nell’Oceano ndiano incontrare barche da pesca utilizzate dai predoni del mare come ‘navi adri’, una sorta di base galleggiante da cui lanciare i loro barchini all’assalto di un indifeso mercantile con a bordo solo dei lavoratori del mare. Difficile distinguere queste navi dalle altre e solo quando ormai sono ‘addosso’ al mercatile chi è a bordo se ne rende conto. Un’ottima difesa si è rivelato il ricorso, da parte degli armatori, ai team di sicurezza armati a bordo. Alla sola loro vista i pirati somali cambiano rotta oppure se insistono la rotta gliela fanno cambiare, con le buone o con le cattive, le guardie armate che sono a bordo a ‘difesa’ della nave. Si parla sempre di difesa e mai di lotta nel caso di team di sicurezza in quanto la base giuridica su cui i fonda l’imbarco di uomini armati a bordo di una nave commerciale è quella di difenderla dai pirati seguendo un protocollo internazionale ben definito che prevede solo come estremo ricorso  l’uso elle armi direttamente contro gli assalitori. Forse nell’Oceano Indiano finora si sono commessdi egli abusi nell’agire nel nome della lotta alla pirateria marittima. Le principali vittime di  questo contrasto risultano essere proprio i pescatori.

A far pensare che forse si commettono degli abusi  il fatto che negli ultimi mesi si sono registrati in maniera crescente denunce di attacchi indiscriminati contro barche di presunti  pirati somali  che sono poi stati uccisi o sono stati catturati da navi da guerra straniere. Una dato che ha fatto scattare un campanello d’allarme anche perché in molti casi si è trattato di semplici pescatori scambiati per pirati. Un fenomeno che di certo nel tempo finisce per esasperare gli animi e quindi inizia una sorta di ‘caccia alle streghe’.

Da questo si può capire anche perché l’India ha assunto nella vicenda una posizione intransigente verso l’Italia sostenendo che chi ha sbagliato deve pagare perchè la legge va rispettata da tutti e che il suo deve essere di monito e di esempio per tutti. Insomma ne sta facendo una questione di diritto. Oggi in India dopo quello di ieri ci sarà un altro appuntamento in un’aula di un tribunale, quello dell’Alta Corte del Kerala dove riprende il dibattito in corso a riguardo sulla giurisdizione della vicenda e quindi se l’episodio sia avvenuto in acque internazionali o meno.

Far valere queste ragioni è importante
La percezione generale è che la partita si giocherà intorno a quello che accadrà anche oggi in aula. Dal 19 febbraio scorso i due Marò sono letteralmente nelle mani degli indiani dopo che si sono consegnati volontariamente alla polizia locale: qualcuno avrà detto loro di farlo forse per dimostrare la loro buona fede. Opinione pubblica e media locali sembrano però convinti della loro colpevolezza. Incidenti come quello in cui sono coinvolti i due marò sono accaduti anche altre volte al largo delle coste indiane, senza però, mai un colpevole. La diplomazia italiana è fortemente impegnata a sostenere l’estraneità dei marò dai fatti che hanno condotto alla morte dei due pescatori indiani o per lo meno a definire la giurisdizione sulla vicenda.
Per questo motivo è in corso una ‘battaglia’ legale su più fronti. I due militari italiani se giudicati in India rischiano grosso. Se riconosciuti colpevoli l’omicidio, secondo il codice penale indiano, è punito con l’ergastolo e anche con la pena di morte. Se processati in Italia in caso di colpevolezza rischiano solo la detenzione. La magistratura italiana ha  già avviato un’inchiesta a carico di Latorre e Girone. Tra l’una e l’altra possibilità corre un sottilissimo filo. Anzitutto è importante stabilire se a uccidere sono state le armi in dotazione agli specialisti della Marina Militare italiana e poi, se l’episodio sia avvenuto in acque territoriali o internazionali. Comunque sia l’Italia ricorda che i due militari erano in servizio attivo per proteggere una nave italiana dagli attacchi di pirateria nell’Oceano Indiano in base a una convenzione delle Nazioni Unite e che quindi godono di immunità garantita dal diritto internazionale e in virtù di questo possono essere processati solo da un tribunale militare in Italia. I base a tutto questo ogni azione o affermazione da parte dell’Italia è improntata alla prudenza. Ogni incomprensione potrebbe comportare rischi per i due militari italiani che si trovano in mano alle autorità locali indiane. Ed ecco perché chi parla di mollezza si sbaglia. Dal 22 febbraio scorso in India si è recato anche il numero due della diplomazia italiana, il sottosegretario agli Esteri, Staffan de Mistura per dare sostegno alle ragioni formulate dall’Italia.

Intanto prosegue la perizia balistica sulle armi e munizioni sequestrate a bordo dell’Enrica Lexie. Si tratta di sei fucili d’assalto modello Beretta ar 70/90, due mitragliatrici leggere ‘FN MINIMI’ prodotte su licenza dalla Berretta, e relativo munizionamento, proiettili di calibro 5.56×45 mm Nato. L’esame si svolge presso il ‘Forensic Science Laboratory’, FSL, l’Istituto della polizia scientifica di Trivandrum. Test che si prevedono dovrebbe durare tre giorni e quindi terminare domani. L’esame è considerato decisivo in quanto potrebbe scagionare i due militari italiani. Per garantire la massima trasparenza il tutto sta avvenendo alla presenza anche di due supervisori giunti dall’Italia. Si tratta di due ufficiali dei carabinieri del ‘Raggruppamento per le Investigazioni Scientifiche, Ris. Dall’autopsia effettuata presso il ‘Medical College Hospital’ di Trivandrum dai corpi dei due pescatori sono stati estratti 2 proiettili. Dal confronto di questi con quelli recuperati sulla Enrica Lexie verrà determinato se sono gli stessi o meno.

Ferdinando Pelliccia