Mentre la “riforma del lavoro” ruota stranamente attorno all’art 18, nessuno si occupa di una vera catastrofe che si sta consumando a danno dei lavoratori del mare. Eppure la flotta mercantile italiana, secondo il World Factbook della CIA, si classificherebbe all’8°posto mondiale per numero di navi e il Looyd’s Register of Shipping classifica la flotta mercantile battente bandiera italiana al 12º posto per tonnellaggio sopra le 100 gt (gross tonnes) e al 13º posto per Paese proprietari; secondo Confitarma (Associazione di categoria degli armatori), l’Italia si classificherebbe al 13°posto mondiale per navi con un tonnellaggio di portata lorda pari o superiore alle 1000 tpl.

Insomma, al di là dei dati, il nostro Paese, bagnato per ¾ dal mare, vanta una tradizione marinara importante che ha scritto la storia dell’Italia, e ora rischia di morire schiacciata da ciò che molti chiamano “globalizzazione” ma sarebbe meglio definire il fenomeno in altro modo, diciamo che basterebbe un termine solo un po’ più realistico.

“La catastrofe” nasce da un uso disinvolto della Contrattazione Collettiva nazionale che permette all’Armamento Italiano l’impiego, in misura sempre maggiore, di manodopera extracomunitaria. Complice il decreto legislativo 88/2001 (decreto Bersani) che ha previsto come strumento di deroga alla norma sulla composizione degli equipaggi la contrattazione collettiva degli organismi maggiormente rappresentativi sul territorio nazionale.

Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 88/2001 la norma sulla composizione dell’ equipaggio prevedeva l’impiego di personale italiano e/o comunitario e solo in via del tutto eccezionale si poteva derogare attraverso un decreto del Ministero dei Trasporti. Da allora, invece, lo strumento della contrattazione collettiva ha portato a verbali di accordo che consentono di imbarcare 18 extracomunitari rispetto ad un equipaggio di 21 persone.

L’incidenza di personale marittimo italiano a bordo è quindi del 10-15% .

Quindi adesso sono i sindacati che decidono quanti italiani imbarcare sulle navi, sono CGIL, CSIL, UIL  a fare questi accordi con gli armatori, con CONFITARMA.  Accordi perfettamente legali, s’intende, ma che hanno portato alla disoccupazione migliaia di persone.

Per saperne di più intervistiamo la dottoressa Azzarelli di Pozzallo, in provincia di Ragusa, che da anni lotta per salvaguardare non solo i diritti dei marittimi ma anche delle economie locali che si stanno completamente annientando.

D– La Vostra zona fino a qualche tempo fa era florida, c’era lavoro per tutti?

R– Fino agli anni novanta a Pozzallo come in altri comuni con alta densità di marittimi professionisti ( non stiamo parlando di pescatori) regnava il benessere. I lavoratori marittimi portavano dal mare liquidità che investivano nelle loro città. Erano loro che facevano girare l’economia del territorio locale, acquistando case o ristrutturandole, acquistando autovetture, aprendo negozi, ecc.. Erano loro che davano lavoro anche agli artigiani, dal fabbro al falegname. Oggi purtroppo la mancanza di imbarchi per i marittimi si è riversata sull’intera economia dei paesi marinari. I settori dell’industria, dell’edilizia, del turismo, dell’artigianato vengono travolti attraverso un disastroso effetto domino dalla crisi occupazionale dei marittimi italiani.

D– L’Italia essendo bagnata da 3/4 di mare ha una cultura antichissima della marineria, questo sarà un problema quindi dell’intero paese?

R– Certo, il problema riguarda l’intera nazione. Il comparto dei lavoratori marittimi muove il 90% dell’economia mondiale. L’Italia ha la forma di una lunghissima banchina e la sua storia secolare ci racconta di battaglie  tra quanti ambivano a gestire le sue coste proprio per la ricchezza che derivava dagli scambi commerciali via mare. Se lei pensa che solo a Pozzallo sono in mille i lavoratori marittimi che stanno rischiando la fame e, come Pozzallo, tutte le altre città marinare stanno vivendo questo disagio, e che in Italia sono all’incirca 50 mila gli iscritti alla “gente di mare”, si rende conto che la situazione non può non travolgere l’economia di un’intera nazione.

 

D– Perchè un marittimo non riesce più a imbarcarsi?

R– Il decreto legislativo n. 80/2001 ( noto come decreto Bersani) ha introdotto la contrattazione collettiva come strumento di deroga alla precedente normativa che prevedeva: per le navi battenti bandiera italiana, l’intero equipaggio di nazionalità italiana e/o comunitario, mentre per le navi iscritte nel registro bis, prevedeva una percentuale minima di italiani e/o comunitari  a bordo.

Il ricorso alla contrattazione sindacale muoveva dalla necessità di apprestare un mezzo più rapido e diretto, in grado di evitare pastoie burocratiche e di verificare in concreto la necessità dell’armatore, alla luce della situazione locale del mercato del lavoro. In realtà, la deroga è stata utilizzata nella gran parte dei casi non per le ragioni anzi descritte, bensì in un’ottica diversa, il cui effetto è andato a detrimento del comparto lavorativo nazionale del settore.

Quindi adesso sono i sindacati che decidono quanti italiani imbarcare sulle navi.  I risultati di quest’uso scellerato della contrattazione collettiva sono sotto gli occhi di tutti. Gli accordi siglati da CGIL, CSIL , UIL e CONFITARMA prevedono una composizione dell’equipaggio  di nazionalità quasi interamente extracomunitario, con un’incidenza della manodopera italiana e/o comunitaria del 10%..  Attenzione: non le sto comunicando nulla di segreto. I sindacati CGIL, CSIL, UIL fanno questi accordi con gli armatori, nella specie CONFITARMA, perché è la legge italiana ( d.lgs. n. 80/2001) che lo consente.

Paradossalmente, trovo tutto questo ancora più scandaloso di un’azione condotta nell’illegalità, perché rende complice lo Stato e soprattutto il governo.

Diviene, pertanto, indispensabile ripristinare le disposizioni precedenti alla riforma , affinché la valutazione della deroga possa discendere da una delibazione della necessità effettuata da un organismo terzo, quale il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in grado di considerare la problematica con riferimento non solo alla situazione particolare ma anche ad un quadro generale di riferimento del comparto lavorativo.

Alla pronuncia si potrebbe pervenire anche attraverso le articolazioni periferiche del Ministero, in condizioni di conoscere la situazione locale del mercato del lavoro.

D– Per tutti i marittimi ci sono questi problemi o dipende dal ruolo? Ad esempio un comandante o un direttore di macchine ha gli stessi problemi?

R– Oggi la crisi attanaglia soprattutto le categorie dei sottoufficiali , comuni e alberghiero e cioè i marinai, gli operai di macchina, i piccoli di camera, i cuochi, gli ingrassatori, i giovanotti di macchina, i mozzi. Per questi marittimi la possibilità di trovare imbarco è veramente un’utopia. Mi chiederà “come fanno a tirare avanti se non trovano più imbarco?” Se sono fortunati, le loro mogli trovano un lavoro come badante guadagnando 400 euro al mese .

Per quanto riguarda gli ufficiali, invece,  la crisi è alle porte. Fra 10 anni, se il quadro normativo rimarrà invariato, non ci sarà lavoro nemmeno per loro. Perché? Semplicemente la maggior parte degli armatori non imbarca allievi ufficiali italiani ( grazie anche all’introduzione del meccanismo della tonnage tax rivelatasi una bufala a detrimento degli stessi allievi ufficiali!) favorendo l’aborto di giovani aspiranti comandanti e direttori di macchina italiani. Ma vi è di più. Alcuni armatori finanziano delle scuole di formazione di ufficiali nelle Filippine e in India. Quindi non appena questi ufficiali filippini e indiani  saranno formati e avranno acquisito l’esperienza di bravi ufficiali, grazie al training che fanno sulle navi accanto ai comandanti e direttori di macchina italiani, non ci sarà spazio nemmeno per i comandanti e i direttori italiani.

 

D – che differenza c’è tra uno stipendio medio pagato a un italiano e uno stipendio di un extracomunitario?

R – Ed ecco toccato uno degli aspetti più cruciali del fenomeno. Un indiano guadagna all’incirca 700 dollari al mese e rimane imbarcato dai 9 ai 18 mesi. In questo modo fa anche risparmiare la compagnia sui viaggi di ritorno a casa. Un italiano con la stessa mansione dell’indiano, tipo marinaio, guadagna 2000 euro al mese e dopo tre mesi circa viene sbarcato.

Per non parlare, poi, del fatto che gli extracomunitari a bordo non pagano IRPEF sul loro guadagno che andrà speso, è ovvio, nei loro paesi d’origine e non in Italia, con una perdita per l’Italia di circa 250 milioni di euro all’anno per quanto riguarda l’entrata fiscale relativa all’IRPEF. Da calcoli pubblicati dal Comitato Seagull  risulterebbe che fra IRPEF incassata e mancato versamento dei contributi previdenziali, ogni armatore di nave iscritta nel registro-bis ha risparmiato circa 15.000 euro all’ anno per ogni marittimo imbarcato, quindi calcoliamo: € 15.000 x 60.000 marittimi imbarcati (dato quest’ ultimo fornito dal presidente D’Amico) = € 900.000.000 risparmiati all’ anno x 13 anni (dal 1998 ad oggi) =  €.  11.700.000.000;  diconsi undici miliardi e settecento  milioni di  euro!  Qualcuno deve pur chiarire perché nonostante tutto ciò i marittimi italiani rimangono a casa e sulle navi del registro-bis oramai i 2/3 dei componenti l’equipaggio sono stranieri!

 

D – che risposte avete avuto fino ad oggi? Nessuno si è preso a cuore questa situazione così pressante?

R –  “Siamo in un libero mercato e nessuno può vietare agli armatori di prendere la manodopera dove più conviene” queste sono le risposte.

Vi esorto a condurre una riflessione. Se oggi i lavoratori marittimi perdono il lavoro, questo è permesso grazie ad un CCNL debole, a normative di settore che non tutelano i lavoratori del mare, a tabelle di armamento minime. Tutte queste cose non sono apparse all’improvviso come tavole sante, ma sono state pensate e sottoscritte da quanti affermano di tutelare l’occupazione dei marittimi italiani.
Il libero mercato e  la globalizzazione non sono fenomeni negativi se condotti nel rispetto del principio costituzionale del diritto al lavoro. Il CCNL, il R.I. e le tabelle d’armamento sono  strumenti che devono servire a regolarizzare un sistema che deve necessariamente propendere ad un’azione efficace di tutela dell’occupazione della gente di mare.

 

Di contro a questa “catastrofe” silenziosa,  va detto che gli armatori hanno molti aiuti, ricevono grossi incentivi  dallo stato italiano per costruire le loro navi, usufruiscono di  agevolazioni e sgravi fiscali, crediti d’imposta e altre amenità che approfondiremo in un prossimo articolo.

Daniela Russo