E’ quasi un obbligo tornare a parlare della delicata vicenda derivata dalla morte di due pescatori indiani che coinvolge due militari italiani in stato di arresto in India.

Un nuovo ‘sussulto’ è giunto stamani dopo che l’Alta Corte dello stato federale indiano del Kerala ha respinto il ricorso presentato dall’Italia relativo alla giurisdizione da applicare al caso.

Per l’Italia la polizia del Kerala non aveva titolo a condurre l’indagine, in quanto l’incidente era avvenuto al di fuori delle acque territoriali indiane.

Il giudice P S Gopinathan, ha deciso invece, che la polizia del Kerala è competente sul caso dato che l’incidente nel quale sono stati uccisi i due pescatori indiani, Valentine Jelestine e Ajesh Binki, è avvenuto nelle acque territoriali  che ricadono nella Zona Economica Esclusiva dell’India.

Il giudice ha anche sottolineato che la nave sulla quale si trovavano i due marò, la Enrica Lexie, è una imbarcazione privata che non appartiene al governo italiano.

Inoltre, la corte ha anche sanzionato sia il governo italiano comminandogli una multa di 100mila rupie, circa 1.500 euro, sia gli eredi dei due pescatori morti, la moglie di Jelestine e le sorelle di Binki, imponendo a ciascuno di loro di pagare una sanzione di 10mila rupie, circa 144
euro.

Una sorta di ‘castigo’ per aver raggiunto un accordo in merito all’incidente. L’accordo extragiudiziale era stato siglato dalle parti il 24 aprile scorso davanti all’Alta Corte del Kerala e prevedeva che l’Italia versasse a ciascun dei familiari dei due pescatori morti circa 10 milioni di rupie pari a 150mila euro

Da questa sentenza emerge tutta la complessità della vicenda legata alla morte di due pescatori locali. Una vicenda che vede contrapposti le
autorità dello stato federale indiano del Kerala a quelle italiane.

I due indiani sarebbero, secondo le autorità locali, stati uccisi in mare per errore perché scambiati per pirati il 15 febbraio scorso. Ad ucciderli, sempre secondo le autorità del Kerala, sarebbero stati due marò del Reggimento San Marco. In particolare ad essere incolpati della morte dei due pescatori sono due sottoufficiali di marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, che dal 19 febbraio scorso, dopo essersi consegnati alle autorità indiane, ora sono trattenuti in stato di arresto in India e devono difendersi dall’accusa di omicidio e se giudicati colpevoli rischiano, secondo le leggi indiane, l’ergastolo o la pena capitale.

Una incresciosa situazione che la diplomazia italiana, una delle migliori al mondo, sta cercando, fin da primi momenti, di affrontare nel migliore dei modi.

Purtroppo è difficile ‘trattare’ con chi si sente in diritto di fare quello che sta facendo e che ancor peggio si sente in diritto di farsi giustizia per un presunto torto subito.

Inutilmente da allora le autorità italiane hanno cercato in mille modi di sostenere l’estraneità dei due marò ai fatti contestatigli dagli indiani o per lo meno ha rivendicato la giurisdizione del caso.

Come l’Italia si sia trovata impegolata in questa situazione bisogna fare un piccolo passo indietro fino all’estate scorsa.

I due militari italiani, ‘trattenuti in India, erano imbarcati insieme ad altri 4 marò a bordo della nave battente bandiera italiana, Enrica Lexie della società di navigazione F.lli D’Amato di Napoli. I sei marò componevano un Nucleo Militare di Protezione, NMP, istituiti dall’Italia l’estate scorsa con la legge 130 del 2011 per proteggere le navi di bandiera dai pirati.

Per tutti loro, le regole di ingaggio si basano sul principio di autodifesa, cioè il ricorso dell’uso della forza solo quando è necessario.

Almeno fino al 15 febbraio scorso nessuno aveva mostrato perplessità in merito all’esigenza del governo Berlusconi e del Parlamento, che insieme alla Confederazione italiana degli armatori, Confitarma, nel 2011 avevano fortissimamente voluto i militari italiani a bordo delle navi di bandiera che navigano nelle acque internazionali infestate dai pirati.

Un provvedimento che doveva portare, secondo gli intenti, giovamento anche ai lavoratori del mare che ogni giorno a bordo delle navi italiane, di cui sono membri dell’equipaggio, solcano i mari infestati dai pirati. Un’esigenza dettata anche dal fatto che in diverse occasioni i marittimi italiani hanno subito le conseguenze di un sequestro da parte dei pirati somali quando la loro nave è stata catturata. Poi è scoppiato il caso dei due marò in India e tutte le negatività della legga sono venute a ‘galla’.

Alla fine i militari italiani imbarcati a difesa dei mercantili battenti il tricolore, e che dovevano operare nel quadro delle risoluzioni ONU relative al contrasto alla pirateria marittima, si sono ritrovati a fare,  in poche parole, i ‘guardiani’ di  navi commerciali ‘affittati’ dalla Marina Militare agli armatori italiani per 500 euro al giorno cadauno.

Grazie ad una legge fatta male, incompleta, la 130 del 2011, i militari della Marina sono stati coinvolti in una dinamica di ‘sicurezza sussidiaria’, che è più adatta invece, ad un privato e di fatto, come è accaduto, assoggettati alle decisioni di un comandante civile.

Il 15 febbraio scorso infatti, anche se la Enrica Lexie ormai già si trovava lontana dalle coste indiane, in pieno Oceano Indiano, il comandante della nave, Umberto Vitelli ha ordinato di invertire la rotta e di rientrare in acque territoriale indiane su richiesta delle autorità del Kerala.

Un’inspiegabile decisione a cui i militari a bordo non si sono potuti opporre, ma  che di fatto ha consegnato nave e uomini nelle mani degli indiani.

Da quel momento le autorità indiane si sono trovate in una posizione di vantaggio rispetto alle autorità italiane e quindi si sono comportate di conseguenza.

Purtroppo nell’Oceano Indiano finora sono, con molta probabilità, stati commessi degli abusi nell’agire nel nome della lotta alla pirateria marittima. Le principali vittime di questi abusi risulterebbero essere proprio i pescatori e tra essi molti sono indiani. Per cui nel momento
in cui l’India si è ritrovata tra le mani dei responsabili o presunti tali di uno di questi abusi è chiaro che la voglia di farsi ‘giustizia’ ha prevalso sulla ragione.

In questa situazione ogni azione o affermazione da parte dell’Italia all’inizio è stata improntata alla prudenza. Ogni incomprensione avrebbe potuto infiammare ancor di più gli animi e comportare rischi per i due militari italiani che si vogliono riportare a casa sani e salvi ad ogni costo.

Purtroppo non è andata nel migliore dei modi e anche se lentamente, la vicenda è andata avanti e l’India ha assunto, nella vicenda, sempre di più una posizione intransigente verso l’Italia sostenendo che chi ha sbagliato deve pagare perchè la legge va rispettata da tutti e che il suo agire deve essere di monito e di esempio per tutti.

Insomma ne ha fatto una questione di diritto.

Quasi con una flemma inglese incurante di tutto e tutti le autorità indiane del Kerala sono andate avanti per la loro strada che ha dato degli sviluppi giudiziari per nulla favorevoli ai due marò.

A questo punto della ‘storia’ di fronte a nessuna certezza, ma con la paura che gli indiani ‘facessero sul serio’ l’Italia ha abbandonato la via diplomatica ed ha cambiato atteggiamento arrivando anche a fare la voce grossa e a chiedere aiuto alla comunità internazionale, ONU in testa.

Certamente se il capitano Vitelli non avesse ordinato il cambio di rotta oggi forse questa vicenda si sarebbe già spenta risolta in maniera accettabile .

Se i due marò italiani si trovano in stato di arresto nelle mani delle autorità indiane e devono rispondere dell’accusa di omicidio, la colpa non può essere che attribuita a chi ha ordinato al timoniere della Enrica Lexie, attraverso il comandante, di cambiare rotta.

Ora l’ultima flebile speranza è appesa ad un filo che lega il destino dei due specialisti di marina alla decisione che domani dovrebbe prendere l’alta corte di Kochi in merito alla libertà su cauzione chiesta dall’Italia per i due militari italiani.

Ferdinando Pelliccia