Gli attivisti pro-indipendenza sono infuriati per la morte di Mako Tabuni, vicepresidente del Comitato nazionale per la Papua Occidentale. L’attivista, infatti, è stato ucciso dalla polizia indonesiana ieri, 14 giugno, e immediatamente sono scoppiati i disordini nella città di Papua. I ribelli hanno provocato numerosi incendi e hanno ucciso una persona, secondo quanto riferito oggi dalle forze di polizia indonesiane.

La situazione resta tesa nella città. Molti sono i negozi che non aprono per paura, e la gente vive nel terrore di uscire di casa. Il capo della polizia di Papua, Bigman Lumban Tobing, ha però dichiarato: “la situazione in questo momento è tranquilla. Ci sono molti soldati nelle strade”.

Una insurrezione come quella avvenuta in questi giorni, seppure a bassa intensità, costituisce una questione estremamente delicata per il governo indonesiano il quale, non a caso, ha limitato l’accesso ai giornalisti stranieri, agli operatori umanitari e agli accademici che, in questo modo, non hanno modo di verificare le notizie sulla situazione di Papua.

Le versioni sulla morte di Tabuni sono, naturalmente, diverse. Il capo della polizia ha affermato che Tabuni è stato colpito ieri mattina mentre le forze dell’ordine cercavano di arrestarlo nei pressi del complesso residenziale Waena, a Jayapura, la capitale della provincia di Papua. Secondo la ricostruzione di Tobing, Tabuni avrebbe usato la forza contro la polizia, tentando di prendere la pistola di uno degli ufficiali. A quel punto sarebbe stato sparato per poi morire qualche ora dopo, in ospedale.

Questa ricostruzione, però, non convince gli attivisti vicini a Tabuni. Anche secondo Human Rights Watch le forze armate indonesiane sono le principali responsabili della violenza nel Paese.

“Consentire l’accesso alla provincia da parte degli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite e da parte della stampa internazionale potrebbe ridurre tutti quei rumors che spesso non fanno che alimentare la disinformazione”, ha dichiarato Elaine Pearson, vicedirettrice di Human Rights Watch per l’Asia, in un comunicato di mercoledì scorso.

Luciana Coluccello