In merito alla vicenda dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, che si sta ‘consumando in India, si registra l’intervento del ministro delle Difesa, Giampaolo Di Paola.

Secondo il ministro: “l’insegnamento che ci viene dalla storia dei due marò è che una nave italiana in quelle condizioni non entrerà mai più nelle acque territoriali di un altro Paese. In questo modo non ci sarà il problema di scendere dalla nave. Di questo, possiamo essere sicuri”.

Sullo stesso tema si era espresso nei giorni scorsi anche il numero due della Farnesina, Staffan de Mistura che aveva affermato: “Quella nave  faceva meglio a continuare la navigazione e dopo certamente rispondere di qualunque incidente”.

E’ chiaro che non si riesce a mandare giù il fatto che la nave commerciale italiana, Enrica Lexie sia tornata indietro, mentre già si trovava in acque internazionali.

Un evidente segnale che in merito alla domanda, come mai l’Italia si è trovata coinvolta in questa vicenda? almeno due ministri hanno le idee chiare sulle cause.

Se l’Enrica Lexie non fosse tornata indietro tutto quello che è accaduto e che deve ancora accadere in India non si sarebbe mai verificato

Mentre la vicenda dei due marò in India assume toni meno tesi resta l’amarezza per come l’Italia si sia trovata coinvolta in questa spiacevole situazione.

Una situazione che la vede in una condizione sfavorevole rispetto all’India.

In questo lontano Paese le autorità locali dello stato federale del Kerala ‘pretendono’ di poter processare, tra le varie accuse, per omicidio i due sottoufficiali di marina che dal 19 febbraio scorso ‘trattengono’ agli arresti tra le proteste formali e informali dell’Italia.

Al momento dei fatti, contestato loro dagli indiani, i due militari di marina erano imbarcati a bordo della nave italiana Enrica Lexie, della società di navigazione Flli D’Amato di Napoli, come team di sicurezza, NMP, per difenderla dai pirati.

Nel pomeriggio del 15 febbraio scorso la nave italiana, al largo delle coste meridionali dell’India, nell’Oceano Indiano, ebbe un ‘contatto ravvicinato’ con un peschereccio.

L’atteggiamento tenuto dalla barca da pesca venne giudicato dal personale della Marina Militare imbarcato sulla nave commerciale italiana ostile, tipico dei pirati.

Personale le cui regole di ingaggio si basano sul principio di autodifesa, cioè il ricorso dell’uso della forza solo quando è necessario.

I marò viste le armi imbracciate dalle persone presenti a bordo del peschereccio intervenne secondo le procedure internazionali previste in questi casi, ossia con ‘warning shots’.

Da prima con segnalazioni radio e luminose e poi, esplodendo tre serie di colpi d’arma da fuoco a scopo dissuasivo. Dopo l’ultima serie di colpi, l’imbarcazione dei presunti pirati si allontanò dalla nave italiana che poi, proseguì in sicurezza la sua navigazione allontanandosi sempre di più dalle coste indiane.

In serata il comandante della nave italiana venne contattato dalla guardia costiera indiana e gli venne chiesto di tornare indietro e dirigersi verso il porto di Kochi.

Il capitano Vitelli, comandante della Enrica Lexie, si assoggettò, non prima di essersi consultato con l’armatore a Napoli, alla richiesta indiana, sebbene ormai fosse in acque internazionali, e cambiò rotta rientrando, sotto scorta di unità navali della guardia costiera indiana, nel porto di Kochi nel Kerala. Una volta entrata in rada al comandante della nave venne ordinato di dare fondo all’ancora e attendere successive
disposizione. Successivamente l’India inoltrò una protesta formale all’Italia per l’uccisione di 2 pescatori locali, Valentine Jelestine e Ajesh Binki, da parte dei militari della marina italiana imbarcati a bordo della Enrica Lexie.

Da quel momento veniva dato vita ad un’intricata vicenda che finora, a distanza, di quasi  4 mesi ancora non vede soluzione.

I due si trovavano a bordo della nave indiana utilizzata per la pesca del tonno, in tutto erano 11 pescatori,  ed erano rispettivamente il timoniere e il marinaio di guardia in coperta, mentre gli altri 9 dormivano sotto coperta.

Il 19 febbraio successivo due dei marò a bordo della nave italiana, il capo team e il suo vice, si dovettero consegnare nelle mani delle autorità di polizia del Kerala. I due marò vennero arrestati e successivamente, il 5 marzo, incarcerati.

Dopo diverse vicissitudini da ieri sono in libertà su cauzione in attesa di essere sottoposti a processo per omicidio.

Difficile capire dove sta la ragione e dove il torto.

Con molta probabilità se i fatti ascritti ai due marò hanno fondatezza certamente si tratta di un incidente, comunque  tutto è da dimostrare.

Purtroppo negli ultimi due anni nel mare del Corno D’Africa e Oceano Indiano  i pescatori sono diventati ‘vittime’ delle guardie armate delle società di sicurezza private o dei marinai delle navi da guerra, si tratta delle  unità navali militari che operano nel ‘mare dei pirati’ in maniera individuale, che li uccidono o li imprigionano scambiandoli per pirati somali.

Il problema è reale e nasce soprattutto dal fatto che molti pescatori, specie i somali, escono in mare aperto portando con se un’arma.

Si tratta di una vecchia usanza nata in quella parte del mondo dalla necessità di potersi difendere dai predoni che cercano di portare via loro il pescato.

Purtroppo di questi tempi però, vedere un uomo armato in pieno Oceano è per molti sinonimo di pirata.

Ed ecco che nasce l’equivoco.

Molti di questi episodi hanno coinvolto pescatori indiani e quindi questo aiuta a capire l’esasperazione mostrata dall’opinione pubblica successivamente all’episodio del 15 febbraio scorso e la ‘testardaggine’ delle autorità locali a voler andare avanti nonostante le tante incongruenze e discordanze nei racconti dei fatti da parte indiana e italiana.

Tutto quello che è accaduto in India in questi 4 mesi riporta alla mente i tempi dell’inquisizione quando si dava la caccia alle streghe e anche senza prove, ma con solo il sospetto, si giudicava e si condannavano le persone al rogo.

Comunque sia una sola cosa è certa se il capitano Umberto Vitelli non avesse ordinato il cambio di rotta oggi forse questa vicenda si sarebbe già spenta come tante altre simili che si verificano nelle acque notoriamente infestate dai pirati somali.

Se i due marò italiani si trovano nelle mani delle autorità indiane e devono rispondere dell’accusa di omicidio, la colpa non può essere che attribuita a chi ha ordinato al timoniere della Enrica Lexie, attraverso il comandante, di cambiare rotta.

In merito lo scorso 13 marzo il ministro degli Esteri, Giulio Terzi ricostruendo le tappe della vicenda alla Camera e al Senato affermò: “L’ingresso della Enrica Lexie in acque indiane è stato il risultato di un sotterfugio della polizia locale, in particolare del centro di coordinamento della sicurezza in mare di Bombay che aveva richiesto al comandante della Lexie di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati. Sulla base di questa richiesta, il comandante della Lexie, acquisita l’autorizzazione dell’armatore decideva di dirigere nel porto…”.

Però, a quanto risulta in Italia inspiegabilmente non sembra sia stata avviata in merito alcuna inchiesta della magistratura.

La possibilità per le navi commerciali italiane, che navigano nelle aree a rischio pirati,  di chiedere la scorta armata a bordo composta da specialisti della Marina italiana, in particolare fanti del Reggimento San Marco, è data da un’intesa siglata nel mese di ottobre del 2011 tra il
Ministero della  Difesa italiano e Confederazione degli armatori, Confitarma che prevede l’impiego degli NMP, Nuclei Militari di Protezione, in
attuazione di una legge italiana, la 130 del 2011sul contrasto alla pirateria marittima.

Il piano di impiego degli NMP è abbastanza articolato e leggendolo si evince che prevede anche che le navi commerciali scortate dai militari seguono anche rotte particolari in modo da evitare interferenze con la giurisdizione degli stati costieri.

Un passaggio  questo, rivelatosi importanti alla luce dei fatti accaduti in India, ma che qualcuno non ha rispettato.

Purtroppo se l’Italia si trova nell’attuale situazione, è anche perché la 130 è una legge fatta male, incompleta con cui i militari della Marina sono stati coinvolti in una dinamica di ‘sicurezza sussidiaria’, che è più adatta invece, ad un privato e di fatto, come è accaduto, assoggettati alle decisioni di un comandante civile.

Alla fine i militari italiani, imbarcati a difesa dei mercantili battenti il tricolore, e che dovevano operare nel quadro delle risoluzioni ONU relative al contrasto alla pirateria marittima, si sono invece, ritrovati a fare,  in poche parole, i ‘guardiani’ di  navi commerciali ‘affittati’ dalla
Marina Militare agli Armatori italiani per poco più di 500 euro al giorno cadauno.

Ferdinando Pelliccia