Da poche ore Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due sottoufficiali della Marina italiana ‘carcerati’ in India con l’accusa di omicidio, sono liberi.

Un’agognata libertà giunta dopo che il 19 febbraio scorso si erano consegnati alle autorità dello stato federale indiano del Kerala che li accusa di essere i responsabili della morte di due pescatori indiani avvenuta in mare il 15 febbraio scorso.

Una libertà salutata festosamente anche se i due marò devono sottostare a delle condizioni poste dal magistrato indiano per poter ottenere il beneficio della libertà su cauzione.

Tra queste condizioni, i due non possono allontanarsi oltre i 10 km dalla zona di competenza del Commissariato di Kochi dove si devono recare ogni giorno per la firma.

Per cui Latorre e Girone, una volta lasciata la ‘Borstal School’ in cui erano entrati lo scorso 25 maggio dopo aver trascorso dal 5 marzo scorso una lunga detenzione nel carcere di Trivandrum, hanno trascorso la loro prima notte in India da uomini liberi in un Hotel. Si tratta del Trident di Kochi dove alloggeranno in attesa dell’inizio del processo, fissato per il 18 giugno, in cui sono imputati per la morte dei due pescatori indiani.

Da kochi è iniziata la loro ‘avventura’ e forse a Kochi terminerà. Quello che tutti si augurano è però, nel migliore dei modi.

Quel lontano 19 febbraio, dopo che vennero arrestati, i due militari italiani vennero ‘ospitati’ nella guest-house di Kochi prima di essere
trasferiti in quella di Kollam e poi in carcere.

Superato questo importante passaggio, ossia ‘tirare’ fuori dal carcere i due marò, ora il lavoro della diplomazia italiana e del team di avvocati che sono all’opera in India, verte a riportare a casa i due specialisti della marina che loro malgrado si sono ritrovati coinvolti in una vicenda di cui si dicono estranei.

Le autorità indiane locali del Kerala sono convinte della loro colpevolezza e li vogliono portare a giudizio ed se riconosciuti colpevoli, condannarli.

L’Italia  non riconosce all’India il diritto a giudicare i suoi due militari di Marina in quanto sostiene che la giurisdizione a giudicarli le spetti perché l’episodio si è verificato in acque internazionali e la nave su cui i due marò erano imbarcati batteva bandiera italiana.

L’India ribatte che si è trattato di omicidio  e non riconosce ai due militari italiani lo status di funzionari dello stato oltre a sostenere che il fatto è avvenuto in acque indiane.

Incongruenze e discordanze nelle due versioni che hanno dato vita ad una lunga battaglia legale tra i due Paesi che a volte ha anche assunto toni aspri.

Dalla parte italiana si lavora soprattutto a stabilire come realmente si sono svolti i fatti e a chiarire le circostanze dell’incidente accaduto in mare quel ‘maledetto’ 15 febbraio.

Quel giorno i due marò, insieme ad altri quattro commilitoni, erano imbarcati a bordo di una nave italiana, la Enrica Lexie della società di navigazione Flli D’Amato di Napoli.

I militari italiani componevano un team di sicurezza denominato Nucleo Militare di Protezione, NMP, istituito dall’Italia con la Legge 130 del 2011 per difendere le navi di bandiera dai pirati.

La nave dei Flli D’Amato, pur trovandosi in acque internazionali, su richiesta delle autorità indiane contravvenendo ad ogni parere contrario da parte delle autorità italiane cambiò rotta e torno a Kochi ‘gettando’ letteralmente i militari italiani nelle braccia degli indiani. La stessa nave è rimasta, insieme al suo equipaggio e agli altri 4 marò del NMP, fino allo scorso 5 maggio ‘trattenuta’ in India.

I due marò sostengono che il peschereccio, su cui i due marinai indiani erano imbarcati, inizialmente non reagì in maniera appropriata agli avvertimenti ad non avvicinarsi alla nave, ossia cambiando rotta, e che pur essendovi uomini armati a bordo nessun colpo di avvertimento
sparato venne indirizzato direttamente contro l’imbarcazione che alla fine poi, cambiò rotta.

Secondo gli indiani invece, i marò uccisero i due pescatori volontariamente forse perché li scambiarono per pirati.

Ferdinando Pelliccia