UE, la neurocrisi

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Nelle elezioni greche l’euro ha battuto la dracma. Ovvio il sollievo in Europa e nel mondo, in queste giornate convulse ed epocali. Certo non tutto è risolto. Dal travaglio in atto potrà uscire un’Unione potente e integrata, capace di imporsi ovunque autorevolmente; oppure un’entità poco più che geografica, politicamente disgregata e ineluttabilmente votata se non a un declino di civiltà, certo a un ruolo indebolito o marginale rispetto ai giganti antichi e recenti dell’Asia e delle Americhe. Molto dipenderà dagli esiti del cruciale Consiglio Europeo previsto per fine giugno.

Oggi il problema dell’Unione Europea è comunemente identificato nell’alternativa secca “sviluppo-rigore”. Tra esodati, disoccupati e imprenditori suicidi, di fronte alle paventate insolvenze di Stati e banche, all’ecatombe di piccole imprese e all’arretramento di intere economie (non tutte, certo: oltre la Germania, vanno molto bene Polonia e Svezia), per molti la questione si riduce all’esigenza di imporre una linea più espansiva al governo tedesco e quindi all’ Europa stessa, intesa come sistema. L’ Euro è infatti una moneta tuttora apolide, in quanto non è diretta espressione di uno Stato sovrano e non ha alle spalle una vera Banca Centrale ufficialmente deputata a sostenerlo. Una maggiore integrazione politica dell’Unione dovrebbe portare a un forte potenziamento della sua moneta, anche attraverso l’emissione di quegli eurobond – titoli obbligazionari emessi e garantiti dalla Banca Centrale Europea – destinati a finanziare con nuova liquidità l’intero continente, esattamente come avviene da sempre nei singoli Stati con i comuni titoli pubblici  Oltre all’Italia (debito pubblico 120% del PIL) e alla Francia di Hollande (debito pubblico 85% del PIL), si riconoscono in questa linea Grecia, Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Portogallo e Repubblica Ceca. Nonché la Gran Bretagna di Cameron, peraltro alquanto defilata nella sua insularità, e fieramente gelosa della sua sterlina e della sua City . Dall’esterno premono con molta insistenza gli Stati Uniti di Obama, stretto tra una ripresa insufficiente e le scadenze elettorali: l’America, con un debito pubblico superiore al 100% del Pil che l’anno scorso l’ha portata sull’orlo del default, ha ora gran fretta di esportare di più in Europa e in Asia. Ma tutto il mondo, in qualche modo, ha bisogno di un’ Europa prospera e solida. Al fianco della Germania, cioè sul fronte più rigido e contrario per il momento all’emissione di eurobond, si trovano Danimarca, Lussemburgo e i paesi della Scandinavia.

Questa crisi ha una peculiarità inedita, data dai rischi di insolvenza di molti Stati. Lo Stato moderno, si sa, ha da tempo molto appesantito le sue strutture e moltiplicato i suoi impegni in ogni settore, spesso oltre ogni reale base produttiva. Il rischio, come accadde in Argentina nel 2002, è che alla fine non sia più in grado di remunerare o rimborsare i suoi titoli, pagare stipendi e pensioni, o far fronte agli impegni con l’estero. La fortissima e aggressiva speculazione finanziaria internazionale – appoggiata dal “fuoco amico” di agenzie di rating che, assegnando o togliendo punti ad aziende e paesi, possono screditare a piacimento la solvibilità di intere economie – approfitta della vulnerabilità dei paesi più indebitati, per vendere e deprezzare i rispettivi titoli pubblici, calcolando di ricomprarli poi a quotazioni più basse. Col calo dei corsi, crescono automaticamente i rendimenti: in altre parole, economie come la nostra o quella iberica si trovano costrette a indebitarsi a costi sempre più onerosi, quasi insostenibili; mentre quelle più forti, per raccogliere capitali, non hanno bisogno di offrire rendimenti particolarmente attraenti. In molti casi, anzi, i tassi dei bund tedeschi toccano lo zero.

Il collasso dei titoli pubblici impone a questo punto drastiche restrizioni alla spesa, o in alternativa pesanti interventi fiscali. Ma poiché, alla fine, ciò che conta è sostanzialmente il rapporto tra debito pubblico e PIL, è evidente che una linea fiscale e creditizia troppo stretta va a scapito dei consumi, del tenore di vita e della stessa produttività: così il problema rischia un avvitamento perverso e senza fine. Oggi l’Italia si sente strozzata. Di qui la necessità, pur mantenendo ogni Stato uno stretto controllo sul proprio debito, che l’UE in quanto tale si faccia tempestivamente carico del problema, accelerando l’integrazione politica tra i suoi 27 aderenti, e producendo liquidità con l’emissione di vere e proprie obbligazioni europee.

Questo è il cuore del problema, e dei dissensi. Certo, Angela Merkel potrà apparire nella sua intransigenza un po’ accerchiata a livello internazionale. Ma è anche vero che già dal 2002 la Germania  – metabolizzati i costi della riunificazione – aveva comunque operato quei tagli alle spese e quel rilancio di produttività che oggi chiede ai partner continentali. Inoltre, gran parte dell’attuale crisi dei Paesi più esposti deriva da decenni di sviluppo fondato su un indebitamento incontrollato, che non rappresenta propriamente un modello dei più virtuosi, e che un metalmeccanico o un ingegnere tedesco non hanno obiettivamente alcuna ragione di accollarsi. Non è poi tanto vero che le posizioni della Cancelliera, almeno in patria, siano così minoritarie: la Merkel ha perso importanti elezioni in ambito locale (Schleswig Holstein), ma il suo partito, la CDU, è tutto con lei. Mentre la stessa opposizione socialdemocratica (SPD) non ha alcuna intenzione di passare come partito della spesa facile. Infine va osservato che questa tenace contrarietà tedesca agli eurobond, così come emerge dalle dichiarazioni della nomenklatura germanica, dal ministro dell’economia Roesler al presidente della Bundesbank Weidmann, non sembra affatto di tipo dogmatico o pregiudiziale. Mentre scriviamo non si esclude il ricorso agli “euro-bills”, una sorta dei eurobond leggeri, limitati nell’importo e nella scadenza: potrebbe essere una discreta soluzione di compromesso. Di certo, prima di garantire i debiti altrui, Berlino pensa a istituzioni politiche più integrate e a una vigilanza unificata e forte sulla spesa. Del resto, dopo qualche riluttanza, il governo federale ha già acconsentito all’emissione dei cosiddetti project-bond, obbligazioni concepite per finanziare singole opere o progetti particolari, specie nel campo delle infrastrutture e dell’ energia. La filosofia di fondo è la stessa: se dobbiamo condividere le passività, ciò avvenga coniugando solidarietà e responsabilità, ovvero introducendo vincoli all’indebitamento dei singoli Stati, accentrando i controlli e unificando le politiche fiscali. A quel punto, concludono i vertici tedeschi, avrà senso parlare di eurobond. Logica luterana e ineccepibile.

Del resto, questo processo di integrazione istituzionale e controlli condivisi è in gran parte già in atto, o prenderà corpo in tempi brevi tramite svariati strumenti tecnico-politici. Fulmineamente tamponata la crisi bancaria spagnola, la BCE governata dall’italiano Draghi prepara una vera e propria unione bancaria sotto una comune supervisione, con una garanzia europea sovranazionale a tutela dei depositanti. C’è poi l’European financial stability facility (il cosiddetto Fondo Salva Stati). Ma già nel 1992 lo stesso Trattato di Maastricht, deliberando l’introduzione dell’ Euro come moneta unica a partire dal 2002 (dopo la fine del serpente monetario prima e dell’Ecu poi), prevedeva per i componenti l’Unione parametri precisi: rapporto deficit-PIL non superiore al 3 per cento, rapporto debito pubblico-PIL non superiore al 60 per cento. Oggi il Patto di Stabilità e Crescita, o Fiscal Compact, prevede sanzioni automatiche per chi non osserva questo tipo di vincoli. Non si tratta per la verità di uno strumento molto popolare, anche perché ben pochi, al momento, sarebbero i paesi in grado di rispettarne le condizioni. La materia è tuttora fluida e oggetto di negoziato. Ma è difficile immaginare traumi o rotture. Nel frattempo, tra perplessità e rischi, nuovi populismi e antichi nazionalismi, l’Europa si direbbe destinata a integrarsi e crescere ancora. Il segnale da Atene è incoraggiante.

I più ottimisti, addirittura, ricorrono al frequente paragone con l’America: se un giorno l’Arkansas non fosse più in grado di rispettare i suoi impegni, si osserva, non per questo verrebbe espulso dall’Unione. D’altronde, c’è da osservare che gli Stati Uniti, comunque favoriti in questo da una comune matrice etnico-linguistica di cui in Europa non c’è traccia, sono diventati tali nel tempo, attraverso un percorso non certo indolore, con una guerra d’indipendenza e un’altra di secessione. Gli stessi padri nobili dell’Europa – grandi figure storiche come Adenauer, Churchill, De Gasperi, Schuman, Spaak, Spinelli e tanti altri – non si erano mai nascosti che per l’unificazione del Vecchio Continente si prospettava un processo di maturazione travagliato e graduale. Ma è anche vero che i processi più lenti possono subire brusche accelerazioni sotto la spinta di urgenze finanziarie eccezionali. E quella attuale certamente lo è.

Per il momento si ripropone ancora il binomio-dilemma: rigore o sviluppo? Esiste in economia come in psicologia una legge detta delle aspettative che si autorealizzano. E’ probabile che una certa ripresa non sia poi lontana, se non altro come fisiologico rimbalzo emotivo. Ma se crescita sarà, verrà dall’economia e dalla società, non dai governi o dalle istituzioni sovranazionali: che tutt’al più possono rimuovere gli ostacoli e favorire i presupposti della ripresa.

Gian Luca Caffarena