“Siamo tutti berlinesi” , aveva detto Kennedy per rincuorare gli ansiosi tedeschi ai tempi del Muro.
Oggi, al German Council for Foreign Relations di Berlino, il segretario PD Bersani non ha solo riproposto l’alleanza con Monti, come tutti i media hanno riferito. Questo era un po’ ovvio, e infatti il Professore ha subito risposto di sì, “purché le riforme si facciano davvero”. Abbastanza scontata anche la risposta.
No, Bersani a Berlino ha fatto di più: Ha voluto inequivocabilmente confermare la vocazione europeista del centrosinistra italiano, che riconosce in pieno la leadership tedesca, esortandola anzi a spingersi oltre sulla via di una piena integrazione del continente: “Ci sembra di vedere una riluttanza ad assumere un ruolo di guida politica”.
Da uomo di sinistra, il segretario del PD ha riaffermato che non potranno esserci ripresa e risanamento senza un rilancio dell’occupazione. Non poteva far diversamente, e su questo concetto del resto molti strati dell’opinione pubblica europea e tedesca, non solo progressista, sembrano ora convergere. Ma ha molto insistito anche su una concezione più organica di Unione Europea, anche contro una certa tradizione storica della sinistra italiana, da sempre molto tiepida su questi temi. Ci vuole, ha detto, “più Europa”, anzi “l’Europa massima possibile” piuttosto che quella minima indispensabile: “L’Europa ha allargato i nostri mercati, ha cambiato la cultura delle nuove generazioni, ha rappresentato spesso il vincolo esterno – pur liberamente assunto – che ci ha obbligato alle riforme necessarie.” E ancora: “Non servono argomentazioni ricercate per comprendere che come attore globale l’Unione Europea pesa di più delle nostre singole ambizioni nazionali”. Di più: “A fronte di una strategia comune a favore degli investimenti e del lavoro, siamo pronti a stringerci su una verifica reciproca dei bilanci nazionali”. Un chiaro segnale alla Merkel a favore del cosiddetto Fiscal Compact e di un reciproco e severo controllo della spesa pubblica, teso a superare quel certo diffuso pregiudizio sugli “italiani spendaccioni” Dopo aver minimizzato le chaches elettorali del centrodestra e sdrammatizzato il peso dei commenti su Mussolini, Bersani ha concluso con una proposta inusuale e accattivante: “Vedrei volentieri un’assise congiunta sul futuro dell’Europa del Parlamento italiano e di quello tedesco.”
Chiarissimo il senso dell’intervento, forse sfuggito a più di un commentatore. Contrariamente alla socialdemocrazia tedesca di un Willy Brandt, sempre aperta ai mercati e ai partner occidentali, la sinistra italiana non ha mai espresso particolari entusiasmi europeisti. A Bad-Godesberg (Bonn, 1959) l’SPD sancì una svolta storica, ripudiando solennemente e per sempre comunismo e marxismo. Nulla di tutto questo è mai avvenuto in Italia: dove, fin dai tempi del Trattato di Roma (1957) l’allora PCI scatenò un’opposizione furibonda contro l’idea di integrazione dei mercati e delle istituzioni europee, vista come minacciosa macchinazione capitalistica e antipopolare. Mercato: altro concetto non proprio appartenente al tradizionale DNA della sinistra italiana, storicamente più propensa a invocare costosi interventi pubblici che a puntare sull’iniziativa dei privati. Col discorso di oggi Bersani, pur riaffermando l’impellenza delle esigenze sociali, vuole accreditare in Germania e nel mondo il nuovo volto della sinistra italiana, in vista di quello che sarà con tutta probabilità il suo futuro governo, in continuità e collaborazione con Mario Monti.
Gian Luca Caffarena

