ECONOMIST_FEB_13Nei primi anni Ottanta – terrorismo ancora forte, lira cronicamente debole – si parlava e si scriveva nel mondo di “Italy in agony”, e lo Spiegel sbatteva in copertina una macabra P38 su un piatto di simbolici spaghetti scotti, per rappresentare la travagliata condizione italiana. Qualcuno pensò che i tedeschi non ci volessero bene, altri più pragmaticamente osservarono che comunque conveniva seguirli sulla via di una crescita sana e non indebitata. La Repubblica, con inopinato fremito nazionalistico, titolò risentita: “Il Cancelliere (Kohl, ndr) ci manda a dire”, mentre Giorgio Bocca immaginava intrighi internazionali contro la nostra moneta. Già allora lagne latino-populiste contro rigore prussiano, quasi che un’economia forte fosse un favore elargito ad altri.
Ora l’Economist esce in copertina con l’immagine, meno brutale ma sempre eloquente, di una Torre di Pisa che pende un po’ troppo: “Chi salverà l’Italia?“. Seguono pronostici elettorali con qualche ricetta economica. Le previsioni, ben ragionate, darebbero vincente il centrosinistra di Bersani con un Monti in posizione importante. Soluzione non ideale, ma accettabile per L’Economist. Quanto alle ricette di economia, il settimanale non si allontana granché da quelle del Fondo Monetario e dell’Ocse: mercato del lavoro più elastico in entrata e in uscita, meno incrostazioni corporative, più produttività e competitività. Si tratta cioè di aggredire le tenaci tutele che limitano la concorrenza: dall’ energia ai taxi, dai farmacisti agli avvocati, perché la legislazione italiana delle professioni è tra le più protezionistiche e antiquate del mondo. Si dovranno poi alleggerire le strutture provinciali, regionali, comunali che costituiscono un duplicato, riducendo spesa pubblica e pressione fiscale sui rapporti di lavoro. Last not least, “riformare una giustizia lenta, pesante, costosa e imprevedibile.” Cose simili dice l’Ocse: lItalia deve «proseguire la riforma del mercato del lavoro rendendo più flessibili le assunzioni e i licenziamenti, accorciare i tempi dei procedimenti giudiziari, e realizzare la rete di protezione sociale già in programma».
L’ FMI, nel rapporto di gennaio, batte sugli stessi tasti, scrivendo che l’Italia può tornare a crescere, e non poco, con le liberalizzazioni e la riforma del lavoro. Più concorrenza e meno rigidità, meno divario tra lavoro precario e lavoro garantito, legame più stretto tra salari e produttività. A queste condizioni, ma solo a queste, il Fondo calcola per l’Italia uno sviluppo del PIL fino al 5,7 per cento in cinque anni, e oltre il 10 nel lungo periodo. Traguardi impraticabili?
“Nessun uomo è un’isola”. Meno che mai un’economia come l’Italia, che malgrado tutto è la terza in Europa, con una ricchezza pro capite superiore alla stessa Germania. Tutto interagisce, tutto è inteconnesso. L’integrazione europea, con i suoi liberi mercati, comporta regole e istituzioni comuni: l’orgoglio nazionale può così rivalutarsi nella forma di un’identità più moderna, favorendo virtuose emulazioni. L’Italia era più abituata alle svalutazioni competitive che a una moneta forte come l’Euro. Ma ora il nostro export, specialmente agricolo, è in forte crescita, smentendo il consolidato pregiudizio che vedeva nelle valuta debole lo strumento primario del commercio estero.
Non so se i tedeschi siano poi così antipatici. Un cittadino di mezza età è maturato nella democrazia, non ha mai conosciuto Hitler, e anzi si può pensare che quella società sia culturalmente più immune di altre alle tentazioni autoritarie, avendo sperimentato sulla propria pelle entrambi gli orrori del Novecento: nazismo e comunismo. Raffigurare la Merkel con svastica e baffetti, più che offensivo, è misero. Ironizzare sulle sue natiche si direbbe goliardico-demenziale, e oltretutto va contro la nostra bella tradizione di galanteria latina. C’è da aggiungere che l’atteggiamento di Berlino è molto cambiato, da quando la BCE di Draghi ha imposto lo scudo anti-spread. e la Cancelliera non ha battuto ciglio, faticando anzi a convincere il Bundestag. Certamente le riforme che oggi loro e il resto del mondo ci consigliano – liberalizzazione del lavoro, riduzione del welfare – le hanno già dovute faticosamente attuare gli stessi tedeschi in anni recenti. Nel frattempo non vedrei dalla Germania particolare ostilità o atteggiamenti sprezzanti: ancora lo scorso giugno lo Zeit versione on line, pur riconoscendo i problemi del nostro Mezzogiorno, scriveva che “l’Italia possiede una solida economia reale. Per accertarsene basta fare un giro in macchina nelle regioni del Nord, Veneto, Lombardia o Emilia Romagna. Chilometro dopo chilometro si susseguono centinaia di capannoni industriali.” Come in Baden-Württemberg o Baviera.
Martin Winterkorm, amministratore delegato di Volkswagen, ha recentemente esaltato “tecnica tedesca e design italiano” come ottima sinergia. Riducendo le distanze macro-economiche, dunque, scemano anche diffidenze e stereotipi etnico-culturali. Il romanticismo ci unisce, il Goethe Institut sta facendo un gran lavoro. Ed è stato bello aprire la stagione lirica alla Scala con Wagner e Verdi.
Gian Luca Caffarena