varo michelangelo

La preparazione dei disegni costruttivi delle condotte per l’aria condizionata per la “Michelangelo” era ormai terminata; l’officina lavorava a pieno ritmo per realizzarle. Ormai mancavano pochi giorni al varo della nave, attendevo con ansia quel giorno in quanto l’Ammiraglio Beretta, che avrebbe gestito l’operazione di varo e ormeggio, mi aveva voluto con sé a bordo, un grande onore.
Arrivò il giorno fatidico: una macchina del Cantiere, alle 06.00 del mattino, venne a prelevare mio padre che aveva organizzato il protocollo di tutta la cerimonia, ne approfittai per farmi dare un passaggio.
Giunti in Cantiere, ci salutammo: mio padre andava a controllare che tutto fosse in ordine e che gli addetti fossero al loro posto, io mi recai alla banchina dove sarebbe stata ormeggiata la nave a controllare che lo spazio riservato alle nostre condotte non fosse stato occupato. Poi mi avvicinai alla “Michelangelo” sullo scalo.
Già da lontano si udiva il sordo battito delle mazze che abbattevano le taccate, cioè i pali appoggiati alla fiancata della nave e bloccati a terra per tenerla in equilibrio. Una piccola nota esplicativa: la nave veniva costruita su uno scalo, cioè due grandi rotaie di base, fissate a terra, cosparse di “sego”(grasso animale) nella parte superiore. Sopra queste venivano posati i vasi, la struttura dentro cui sarebbe stata costruita la carena della nave, con la parte bassa coincidente con lo scalo e su cui sarebbe scivolata in mare.
Per evitare uno scivolamento non dovuto, i vasi erano bloccati allo scalo con dei ganci chiamati “castagne”. Durante la costruzione, per evitare che la nave potesse inclinarsi, le pareti erano bloccate con le “taccate”, i pali inclinati posti da terra alle fiancate.
Arrivai alla nave al termine dell’abbattimento delle taccate, era già stata tolta la “scala reale” a gradini, posta sulla fiancata destra per un facile accesso agli operai che lavoravano dentro la nave per costruirla e fui costretto a salire a bordo sulla “biscaglina”, una scala di corda con gradini di legno, alta una trentina di metri ed esposta ai venti, che veniva tenuta tesa da due operai perché non ondeggiasse. Oggi non lo rifarei, allora ero giovane…
Giunto a bordo, l’Ammiraglio mi diede le disposizioni sulle mie mansioni: avrei dovuto trasmettere da poppa le sue istruzioni ai rimorchiatori, Lui sarebbe stato al centronave, la nave era lunga 275 metri e a prua ci sarebbe stata un’altra persona. Gli ordini ci sarebbero arrivati tramite “walky-talkie”.
Mi recai in cima al dritto di prua, a destra della bandiera, lì sarei rimasto fino all’entrata della nave in mare, poi sarei corso a poppa.
Vicino a me c’era una postazione della RAI con una telecamera, il regista era il grande Nico Sapio. Conoscevo l’operatore che mi permise di fare una panoramica carrellata da Pegli a Cornigliano con la telecamera.
I numerosi spettatori stavano già arrivando, riempiendo il piazzale antistante lo scalo, erano centomila persone circa, le Autorità sarebbero giunte all’ultimo momento. Dall’alto vedevo mio padre affaccendato sul palco dei V.I.P., doveva filare tutto liscio.
Vidi arrivare il Cardinale di Genova, Giuseppe Siri, che avrebbe benedetto la nave, poi i dirigenti dell’Ansaldo, dell’Italia, società armatrice e dell’IRI.
Infine, preceduto da due imponenti corazzieri che si piazzarono ai piedi dello scalone d’onore, arrivò il Presidente della Repubblica Antonio Segni, accompagnato dalla Madrina, Donna Laura Segni e da qualche ministro. Erano arrivati con due aerei da Roma nell’aeroporto di Sestri Ponente non ancora inaugurato ufficialmente.
Finiti i saluti, iniziò la cerimonia, tutta trasmessa per altoparlante. La nave era ormai libera quasi del tutto di scivolare e il Direttore del Cantiere, Ing.Gian Andrea Boero, consegnò alla Madrina una piccola accetta d’acciaio, con il manico nero laccato, con cui doveva tagliare con un colpo il sottile cavo d’acciaio che avrebbe liberato la bottiglia di champagne, appesa a un pennone di fianco al mascone di prua, che si sarebbe spaccata e avrebbe rilasciato anche le ultime castagne.
Pronunciò la fatidica frase: “Madrina, in nome di Dio, taglia!”, la bottiglia si ruppe e tra le sirene delle navi in porto, dei rimorchiatori e lo scampanio delle chiese, la nave iniziò lentamente a muoversi.
Erano le 10,40 del 16 Settembre 1962. La nave impiegò circa 48 secondi a scivolare lungo lo scalo. Dal mio posto, di fianco alla bandiera, smisi di salutare e andai di corsa a prendere il mio posto operativo a poppa.
Ero stato sulla nave anche in altri vari, mi piaceva, ma questa volta l’emozione fu unica, avendo anche partecipato allo studio sul varo alla vasca navale, ero cosciente dei pericoli che stavamo correndo: bastava che si strappasse uno dei cavi d’acciaio collegati alle oltre 500 tonnellate di catene destinate a frenarci, l’effetto frenante si sarebbe interrotto e saremmo andati a sbattere contro la diga sud, con effetti impensabili.
Qualche tempo prima, mio padre, che aveva l’ufficio a fianco di quello del Direttore, con la porta comunicante, mi mostrò nel cassetto della scrivania del Direttore una pistola. Non gli serviva per difesa, c’erano guardiani ovunque, ma serviva nell’eventualità di un varo andato a male, perché il Direttore aveva il dovere morale di spararsi un colpo. Antiche tradizioni d’onore.
Impiegammo quasi un’ora a far ruotare la nave per mezzo dei cinque rimorchiatori impiegati (se ben ricordo), due a prua, due a poppa e uno in centro nave. L’approccio con la banchina fu un poco violento: una violenta raffica di vento ci colpì mentre eravamo a pochi metri di distanza e lo scafo colpì la banchina, per fortuna i parabordi erano di ottima fattura!
Una volta ormeggiata per bene, doveva restare lì per circa un anno d’allestimento, venne approntata una scala e sbarcammo in banchina, con le gambe quasi tremanti dall’adrenalina, ci sentivamo degli eroi.
Questo fu un momento dei più emozionanti, ora sarebbe iniziato il duro lavoro…

 

Sandro Emanuelli