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Assolto il servizio militare, rientrai a casa ed ebbi la fortuna, con una spintarella di mio padre, che dirigeva la Segreteria del Cantiere Navale di Sestri Ponente, una volta Ansaldo poi Italcantieri, di essere assunto come disegnatore-lucidista per un’Azienda italiana specializzata nell’installazione degli impianti navali di condizionamento d’aria. L’Azienda in cui ero stato assunto, per agevolare il lavoro, aveva preso in affitto un appartamento separato dal Cantiere dalla via Aurelia. Lo “staff” di cui facevo parte consisteva in cinque persone, ognuno con compiti precisi. Si lavorava circa 10 e più ore al giorno ed era normale che per pranzo ci facessimo portare dal cameriere del bar a pianterreno dei panini. I progettisti erano in due che poi passavano il progetto a noi disegnatori che provvedevamo a svilupparli. Le pareti dell’appartamento erano cosparse di disegni tecnici delle sezioni della T/n “Michelangelo”, fornitoci dal Cantiere Navale, su cui seguivamo il procedere del progetto. Il disegno veniva poi elaborato in “costruttivo” e trasmesso all’officina meccanica che avrebbe costruito le condotte in materiali diversi, a seconda della destinazione a bordo, i materiali usati erano: ferro, acciaio zincato e lega leggera.

L’ambiente in ufficio era ottimo, i miei colleghi erano molto affiatati perché formavano un “team” da molti anni, ma furono così abili da farmi sentire uno di loro subito. Si disegnava, si parlava, si raccontavano barzellette sconce, si rideva forte, si ascoltava la radio, non c’erano i rapporti tipici di un ufficio né si sentiva il peso delle gerarchie. La nostra vicina di pianerottolo, con cui avevamo i terrazzi comunicanti, continuava a lamentarsi perché, secondo lei, facevamo troppo rumore e spaventavamo il gatto. Si recò dall’Amministratore del palazzo che venne ad ascoltare fuori dalla porta e le disse che era un rumore nella normalità. Non contenta, andò dai Carabinieri che ci fecero visita, non rilevando nulla di anormale. La signora sembrava assatanata, poi si scoprì il perché: il suo gatto aveva preso l’abitudine di passare dentro le sbarre e veniva a fare i bisogni naturali sul nostro, un giorno un mio collega lo scoprì e lo rispedì a casa sua con un bel calcione; naturalmente la nostra pazienza non era infinita, quando ci mandò l’Ufficio d’Igiene del Comune, in cerca di violazioni della legge eravamo al limite della pazienza; una mattina mi trovò sul terrazzo a fumare una sigaretta e riattaccò con le lamentazioni, le suggerii di moderare l’astio perché le piante che lei curava tanto ne avrebbero sofferto, mi rise in faccia. Una piccola di iniezione di acido solforico mise fine alla vita della pianta di geranio sul balcone che lei amava tanto e anche alle recriminazioni… Ormai il lavoro di progettazione dei nostri impianti stava finendo: per evitare motori giganteschi, avevamo diviso la nave in sezioni e ogni sezione era arieggiata da una centrale posta in quella zona. A me spettò il lavoro sullo scalone poppiero. Ormai la nave, ancora sullo scalo, stava per essere varata nel mese di Settembre. Approfittammo di questa breve pausa per prenderci un paio di giorni di riposo, in attesa del lavoro di montaggio, pesantissimo, dopo il varo. Questa fu un’occasione per me, di portare avanti un altro lavoro, sempre inerente alla Michelangelo. Nel passato, avevo aiutato il regista Andrea Miano un amico di mio padre, a creare, per conto dell’Ansaldo un documentario sulle navi, il titolo era “Come nasce una nave”.

La mia collaborazione consisteva inizialmente come addetto alle luci, successivamente iniziai a usare la cinepresa Arriflex a 35 mm. Il documentario vinse il “Premio Italia” del documentario tecnico anche per merito di due riprese fatte da me. Un varo sotto una forte nevicata, ripreso dal carrello della teleferica a 60 metri dal suolo, legato al carrello con una corda spessa per non cadere a causa del vento di tormenta; la seconda ripresa consistette nel piazzarsi davanti ai mucchi di catene che frenavano la discesa di una nave durante il varo e, prima di essere travolto e trasformato in polpetta, lanciare la cinepresa stile pallone da “rugby” ad un operaio addetto e poi un bel tuffo laterale! Quando mio padre vide le riprese mi chiamò “pazzo incosciente!”. Venni chiamato dal regista per aiutarlo a fare delle riprese alla Vasca Navale dell’Università di Genova, Facoltà di Ingegneria Navale diretta dal Prof. Cagnoli. Esisteva un possibile problema per il varo della Michelangelo: il bacino del Cantiere era molto ristretto, a causa della costruzione dei bacini che avrebbero sostituito gli scali tradizionali e c’era il rischio che la Michelangelo, durante il varo, non si riuscisse a frenare con le catene e venisse colpita da un’onda di ritorno e andasse a sbattere con la poppa sulla diga sud o peggio, si rovesciasse.
Già erano stati fatti degli studi su vari precedenti di navi più piccole, avevo partecipato anch’io e una volta venni travolto dall’ondata, ma non bastava. Alla vasca Navale ricostruirono in scala il bacino del Cantiere e con un modello della Michelangelo, sempre in scala, simularono il varo calcolando l’altezza delle onde che ne furono generate. Partecipai attivamente alle riprese ed ebbi l’onore di essere citato dal Prof. Cagnoli che scrisse un articolo su questo studio in cui citava : “Ringrazio anche per la collaborazione il giovane Emanuelli che con il suo entusiasmo e le nuove idee ha contribuito non poco al successo dello studio”. Mia mamma portava sempre il ritaglio di giornale nella borsa… Il riposo finì e ripresi il lavoro in ufficio: ci preparavamo alla cerimonia del varo che poi avvenne il 16 Settembre 1963.

…by Sandro Emanuelli