L’esplosione avvenuta nella miniera di carbone di Soma, nella provincia di Manisa, nella Turchia occidentale ha portato alla ribalta una cruda realtà. Quella che le miniere turche sono insicure per chi vi lavora. Lo spaccato che emerge in queste ore a loro riguardo le pone quasi alla pari a quelle cinesi. Ad accomunare le due realtà soprattutto le carenze nella sicurezza. Una carenza che è una delle principali cause di morte sul lavoro nella Repubblica Popolare Cinese e che pone il Paese asiatico al primo posto tra i Paesi con l’industria mineraria più pericolosa al mondo. Caso vuole poi, che come la Cina anche la Turchia non ha aderito alla ‘Convenzione internazionale sulla sicurezza e la salute nelle miniere’ stilata dall’International Labour Organization nel giugno del 1995. Un documento che nei fatti regolamenta e garantisce la sicurezza sul lavoro nelle miniere dei Paesi aderenti. Non aderirvi pone il Paese, non firmatario, libero di demandare la responsabilità ai propri amministratori o gestori impianti. Al momento dell’incidente nelle viscere della terra vi erano circa 600 minatori. Almeno 200 di essi vi sono rimasti intrappolati. Con il passare delle ore infatti, per loro si nutrono poche speranze di salvezza. Per il numero di morti, feriti e dispersi l’incidente è da considerarsi il più grave avvenuto sul lavoro finora in Turchia. Forse in qualche modo si poteva evitare questa carneficina di minatori. Da anni i sindacati turchi denunciano le insufficienti misure di sicurezza nelle miniere del Paese e lanciano accuse di negligenza al governo di Ankara e alle compagnie minerarie. Caso ha voluto che appena pochi giorni fa il Chp, principale partito di opposizione guidato da Kemal Kilicdaroglu aveva proposto un’inchiesta sulle misure di sicurezza in vigore proprio della miniera di Soma. Una proposta che però, aveva incontrato molte opposizioni ed alla fine era stata respinta. Il maggiore fronte contrario era stato quello dell’Akp, il partito filoislamico al governo nel Paese.
Ferdinando Pelliccia

