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E’ appena uscito on-line l’atteso documento richiesto dalla Commissione Parlamentare Difesa Pd, in esito alla preannunciata indagine sui programmi riguardanti i sistemi d’arma della Difesa con le risultanze, le considerazioni, gli indirizzi e la way-ahead suggerita nei diversi campi. Di primo acchito il documento sembra uno zibaldone di idee, più che di oggettivi riscontri, ben lontani dalle realtà, ammantate sempre da un taglio e da una speranza europeista della Difesa che viene presentata come una panacea dei guai e degli sprechi nazionali. Dopo averlo riletto e tentata una seppur breve digestione, il documento sembra ancor più confermare l’intendimento dei compilatori, che l’Italia –se vuole disporre di un buon strumento militare, e risparmiare sui costi-  deve spogliarsi dei suoi abiti, nella sostanza e fra gli altri aspetti, e farsene uno nuovo, tagliato e cucito a Bruxelles. Anche se, per arrivare a questo, bisogna dare concretezza all’auspicata e mai realizzata Difesa Europea; si confida, forse, troppo nella famosa Presidenza semestrale  italiana, che ha già avuto un primo, preliminare esito non particolarmente felice, scaturito dal Consiglio Europeo dello scorso 13 Dicembre, in cui tutte le proposte (compresa quella sui droni) sono state rinviate a tempi migliori!
Certamente Frate Indovino avrebbe potuto pronosticare con la stessa professionalità e  maggiore scaramanzia, librandosi in un campo ignoto e pieno di incognite, lo stato attuale delle nostre Forze Armate ed il loro quanto mai nebuloso futuro. I correttivi, in tema di programmi e di geostrategia militare, e le relative considerazioni in merito ai diversi aspetti toccati, destano perplessità  per la leggerezza con cui sono affrontati; assenti quei sostanziali e probanti elementi a supporto di tesi riduttive sulla produzione e acquisizione dei sistemi d’arma, mentre si rinvengono pennellate colorite. L’idea di fondo, che si rinviene nel documento, non è tanto di disporre di indagine e analisi con ‘’facts and figures’’, ma operare sforbiciate a dritta e a manca, togliendo soldi al Budget Difesa: questo è il vero ‘’End State’’, lo scopo ultimo di quel documento e non una trasparente, professionale e seria  valutazione dei programmi delle varie Forze Armate, anche in rapporto alle capacità esprimibili dall’industria nazionale della Difesa.
Un approccio scarno e inconsistente; scarno in quanto azzera in dieci paginette l’indagine con proposte di stoppare, rimodulare e re-indirizzare certi programmi già consolidati e con vincoli anche sul piano internazionale; inconsistente in quanto tocca “a volo d’uccello” solo alcuni programmi,  quelli mediaticamente più popolari, ne preannuncia i tagli senza motivarne le vere ed accettabili ragioni, con conclusioni ambivalenti.
Balza subito evidente, a prescindere dal mandato, la precisa volontà di “usare la forbice”, con accuse non troppo larvate ai Vertici di “spendere e spandere” senza coordinamento e spesso in mancanza di motivazioni ed esigenze operative reali. Il sentimento di fiducia è così alto che, d’ora in poi, viene proposto che tutti i programmi della Difesa, anche a prescindere dalla loro entità, siano sottoposti al parere vincolante del Parlamento. In modo  implicito,vengono adombrate connivenze dei militari, quando in servizio, con l’industria,  e si propongono specifiche “barriere”  per evitare che, all’atto della pensione vengano “compensati” con incarichi  o consulenze  varie (questo deteriore aspetto  di “arruolamento-post per militari” andrebbe davvero stroncato in quanto toglie surrettiziamente posti occupazionali alle giovani leve, nell’industria difesa).  Se, comunque, sussistono estremi che debordano da tale preliminare indagine, il Parlamento non può solo “abbaiare alla luna”, ma esiste la concreta possibilità di avviare inchieste approfondite anche ai fini giurisdizionali per eliminare quei vezzi e quegli sprechi –ammesso che esistano-  in cui il sistema italico spesso è in lizza per il “guinness dei primati”.
Due sono, quindi, le direzioni in cui il documento procede nel dominio entropico: la prima, quella di tagliare i sistemi d’arma, a prescindere dalle motivazioni, purchè si risparmi; la seconda, adducendo alla panacea delle mai nate Forze Armate europee, quale possibile soluzione alle esose spese nazionali e quindi ai nostri problemi militari, che devono essere coordinati e armonizzati a Bruxelles (NATO o UE non rileva…), per evitare sprechi e duplicazioni.
Ormai è trascorso oltre un lustro da quando, smosso da un’esortazione del Colle, si auspicava –dopo aver adottato la Borsa (Euro), di andare verso la concretizzazione delle FFAA armate europee (La Spada…) ponendosi anche qualche legittimo e logico interrogativo (il titolo di un mio articolo stesso “La Difesa Europea: utopia o realtà?” era emblematico!). Se Obama – dichiarava giustamente il nostro Presidente della Repubblica- doveva chiamare qualcuno per decidere un qualche intervento con gli europei, avrebbe dovuto usare un solo telefono verso un unico responsabile della Difesa, e non chiamare 27 Presidenti o Premier dalle vedute sicuramente diverse. Sulla base dell’esperienza vissuta quale Comandante della Forza Marittima Europea ( la cd. EUROMARFOR) impiegata anche in operazioni reali, compreso UNIFIL in Libano, per quasi 2 anni, è possibile affermare che  esisteva concretamente la possibilità di amalgamare le varie Marine europee, se si fossero superati gli ostracismi di alcune Nazioni, Inglesi in testa.
Ma da allora, oltre ad addestramenti ed esercitazioni congiunte, poco è stato fatto anche nell’obiettivo di un’integrazione europea nel settore marittimo, e in pratica nulla nel settore terrestre  e aereo: questa è la realtà delle FFAA europee… Un sogno entropico! E molti sono i fattori che giocano contro; da quelli storici e legati alle tradizioni dei diversi popoli europei che da millenni si combattono ferocemente, dagli odi atavici fra nazioni, dalla diversa reputazione e considerazione reciproca delle diverse Forze Armate del vecchio continente, ma quello che è considerato il “driving factor” è, come al solito, il business connesso con i forti poteri e lobby delle diverse industrie nazionali che, soprattutto le nostre,  hanno il (giusto) timore di essere fagocitate dai colossi inglesi, francesi e tedeschi. Da questo pericolo non sarebbero esenti le nostre industrie nazionali del comparto che, pur dotate di nicchie di eccellenza anche a livello internazionale, non potrebbero certo competere con gli altri partner dell’UE, e finirebbero per perdere ciò che oggi ancora fanno -e bene-  sul piano occupazionale interno. D’altronde la storia insegna che noi, italiani, siamo allergici al “teamwork” e a fare “sistema Paese” per cui le nostre industrie, senza tutela statuale, verrebbero sacrificate sull’altare delle maggiori europee.
Basta guardare dietro l’angolo, senza scomodare la storia, per capire che senza il convinto e determinato supporto politico non si vincono le battaglie, tanto meno quelle industriali; basta rivisitare il peso politico espresso quale “Sistema Paese” nel recente giro dell’Africa da parte del Gruppo Cavour, finalizzato alla promozione dei nostri prodotti del “made in Italy”, per capirlo : le Navi sono state visitate  –  nei 5 mesi di navigazione – da 3 Capi di Stato e da 21  Ministri dei vari Paesi toccati, mentre non risulta che alcun governativo o parlamentare nostrano sia mai andato a supportare i nostri “ambasciatori e promotori marinai”!  Non si trattava di sponsorizzare  le industrie per vendere i loro prodotti, ma soprattutto per dare una mano al Paese, il nostro, “per farlo ripartire” nei vari segmenti lavorativi e delle nostre eccellenze della cantieristica, della sistemistica, ma anche nei settori dell’artigianato, dell’alimentazione, ecc., promuovendo le esportazioni, considerato l’aspetto asfittico del mercato interno, e quindi la stessa nostra occupazione nei vari settori. L’apice dell’incomprensione si tocca quando la ricerca industriale  viene esorcizzata quale toccasana per avere prodotti competitivi e allo stato dell’arte, evitando così di investire soldi per programmi all’estero, senza ritorni economici o di know-how industriali connessi col cd. “Work Sharing” ( e non “Works Shearing” come riportato nel documento che  non significa nulla!). Ma di cosa si parla?
Eppure dovrebbe essere noto a tutti  che per fare ricerca ci vogliono tanti soldini, con lo Stato che si fa carico e compartecipa pesantemente ai progetti di ricerca, soprattutto quando si tratta di sistemi sofisticati, ad alta tecnologia, a connotazione militare con competizione sul piano geostrategico.
E, che, per abbattere il rischio di impresa, assai elevato in tali sistemi, ci vogliono in primis dei mercati di esportazione che già si siano espressi -in qualche modo-  per l’acquisizione di sensibili quantitativi di quel prodotto per limitarne i costi unitari? Significativo è il caso del F-35, le cui commesse valgono oltre 3000 esemplari in tutto il mondo ed il cui costo di ricerca, sperimentazione e validazione del mezzo, prima che possa nascere l’oggetto che vola, comporta diverse centinaia di miliardi di dollari, di cui solo lo zero virgola- decimal   (intorno al 3-4 per cento) è a carico dei Paesi partecipanti al programma, mentre il resto -si fa per dire- è a carico US e delle aziende statunitensi! L’assurdo viene addirittura superato con l’affermazione che, per quanto riguarda i velivoli per la Marina, sostituti degli attuali Harrier imbarcati sul Cavour, si dovrà ricercare una soluzione più economica rispetto al F-35, “avviando una ricerca e sviluppo nazionale di un velivolo a decollo verticale” (per la verità si tratta di un velivolo che è ad atterraggio verticale e decollo corto: STOVL, significa Short Take-Off and Vertical Landings…).
Non si riesce a comprendere quale possa essere la Ditta italica così coraggiosa e florida, che s’impegnerebbe in una ricerca e sviluppo di un simile aereo, con un enorme contributo statale, per un mercato nazionale di una ventina di aerei, sperando magari di venderlo all’estero contro i colossi americani: un bagno di sangue e un fallimento d’impresa, assicurati!  Comunque, per quanto attiene il programma  F-35 più in generale, e a fronte di tante criticità (vere  in parte…), ed il timore di perdere “sovranità nazionale”, viene proposto, come era presumibile, “un rinvio delle attività contrattuali… nell’ottica di un significativo ridimensionamento degli schemi di accordo sul programma F-35…” : risultanze ovvie, visto il bombardamento mediatico e dei falsi pacifisti;  peccato che non si dica come si ristora la ben nota obsolescenza delle attuali linee di volo ora costituite da Tornado, AMX, e Harrier.
Ma se, anche quando, s’investe in maniera pluriennale e consistente a livello nazionale su un prodotto che potrebbe avere “uno sfogo industriale” di una certa entità, e che nasce da uno specifico requisito ed esigenza operativa, come la Forza NEC ed il relato “soldato futuro”, si ipotizza ora di stopparne il programma in cui le ditte nazionali hanno investito ingenti  energie e risorse di vario genere da almeno un lustro, bisogna assumersi la precisa responsabilità di creare “un’incompiuta” in corso d’opera, con gli sperperi che ne conseguono.  E buttando a mare “l’acqua sporca, forse, ma col bambino” e con essi svariati miliardi di euro, perché -viene argomentato- “non è accertata la connettività con la NEC” e l’interoperabilità con gli altri sistemi della NATO o UE. Una motivazione che andrebbe approfondita in termini di non-NEC-centricità, se del caso anche  rimodulando i requisiti, nell’assunto che oggi con  le conoscenze IT e la digitalizzazione, si possono conseguire i più diversificati target dottrinali e operativi in ambito Network Centric Warfare; l’importante che non si facciano solo tagli lineari, solo  per “tagliare”, senza mettere sul piatto della bilancia le gravi perdite, economiche e di credibilità delle industrie coinvolte, mentre gli omologhi stranieri si fregano le mani!
Così si annichilisce la nostra industria, ( e noi stessi), che dovrebbe confidare -se non troppo nel contributo economico, doveroso- almeno sull’appoggio e supporto nazionale per sviluppare sistemi da vendere anche sul mercato estero, visto che il mercato interno è, praticamente, “all’osso “. Non possiamo svendere anche quel poco che resta dell’industria Difesa, perché “apparentata” con un mondo, quello militare “guerrafondaio”, mentre il popolo “ripudia la guerra” ( citato testualmente, dall’art.11 della Costituzione, mentre non si rammentano gli altri aarrtt. 78 e 87 che suonano assai diversi per la partecipazione ai conflitti, anche di natura internazionale).
Certo, se si vuole procedere con le svendite, siamo sulla strada giusta; si proceda pure con le caserme, il Garibaldi, la NEC e quant’altro, ma cerchiamo pure gli acquirenti che per ora non si vedono all’orizzonte, rischiando di fare  soltanto “grancassa” e ben poca “cassa”.
E’ pur vero che ormai è l’Italia a essere in vendita, in saldo; abbiamo ceduto assetti, anche strategici, di ogni tipo, dalla Telecom all’Alitalia, alle Banche, alla Sardegna, ai gioielli di famiglia che ormai sono davvero residuali. Ci manca che, con la scusa delle FFAA europee, si svendano anche le ditte della Difesa: francesi, tedeschi e inglesi non aspettano altro che fagocitare i nostri assetti pregiati, i nostri centri di eccellenza per toglierci quel che resta del know-how e di tecnologico. Non si ravvede la necessità di abbeverarsi nel “laghetto avvelenato” dell’UE, adducendo altresì a una politica (inesistente) della PESD, capeggiata dall’ineffabile Lady Ashton, che letteralmente “dovrà diventare il paradigma su cui valutare i programmi nazionali”!! a fronte del rafforzamento di una qualche richiamata Identità europea, in vista dell’assunzione della Presidenza semestrale dell’UE che, “more solito” passerà senza risultati di rilievo.
Un punto centrale del documento, è costituito dalla necessità di rendere sostenibile, nel tempo, gli investimenti con le esigenze della finanza pubblica; nel condividere quindi la Riforma dello Strumento militare e la relativa Spending review, con un taglio  occupazionale di 50000 (cinquantamila persone) dipendenti fra militari e civili, per raggiungere quell’altro nefando paradigma del 50-25-25 (stipendi, investimenti e esercizio), ora si sanziona però che “deve essere perseguita ponendo un tetto prefissato? (che bella novità!!) alle risorse per gli investimenti per garantirne la stabilità nel tempo”. E, nel computare il famoso 25% in termini d’investimenti si congloba di tutto, oltre ai fondi assegnati per la Funzione Difesa, si sommano quelli relativi al  MiSE, fino alle risorse destinate alle missioni internazionali: chiaramente la quota da destinare agli investimenti Difesa deborda da quel 25%, per cui la ‘’loro’’ conclusione è che la si possa ridurre di un miliardo l’anno, per il prossimo decennio! Questo modo di ragionare è assai simile al famoso gioco delle “tre carte”!  Il budget della nostra Difesa è a livello di sopravvivenza, il più povero e striminzito di quello delle Nazioni con cui ci vogliamo confrontare e cooperare, le quali hanno un budget rapportato ad un PIL che è mediamente il doppio del nostro.
Più corretto sarebbe rivolgere la domanda ai politici che si sono avvicendati negli anni che, di là da roboanti dichiarazioni (rammento quelle dell’inizio della cd. Professionalizzazione; quelle di  Martino… “avremo un bilancio Difesa rapportato a 1,5 il PIL, come hanno le Nazioni civili”, mentre nel suo mandato siamo scesi rovinosamente alla metà, allo zero virgola … 0,84!!) non hanno fatto nulla per dare dignità  e supporto alle FFAA. Se, a ogni singolo soldato italiano è assegnato un Budget pari ad X, mentre quello dei Paesi amici ha 2 X, vuoi per lo stipendio, per le manutenzioni e le acquisizioni di nuovi mezzi, quale straordinario “moltiplicatore di forze” e di risorse deve avere quel nostro soldato per sopperire a tale deficienza, a tale “gap – filling”?.
Sarà pur bravo, ma è molto difficile -anzi impossibile- pensare (se non per demagogia) che per gestire un soldato francese o inglese occorrano 50000 euro l’anno, mentre noi -siccome siamo più bravi- possiamo cavarcela con 25000 euro, pretendendo ovviamente gli stessi risultati.
La Difesa è quella che subirà i tagli occupazionali, sulla pelle del personale, più consistenti nell’ambito della Pubblica Amministrazione; lo sanno i gestori della cosa pubblica che qualunque altro taglio porterà al collasso lo strumento militare? Non basta certo il panegirico “dell’addestramento congiunto”  che in buona parte viene già fatto, per affermare improvvidamente che “l’approntamento delle Forze” razionalizza le attività in comune in vista di un reale impiego europeo, né che ‘’gli equipaggiamenti devono essere standardizzati’’: sono aspetti triti e ben noti, ma che non portano certo a risparmi, anzi. Bisogna ricordarsi che, prima dell’addestramento e della comunanza/integrabilità dei sistemi, è necessario disporre di mezzi adeguati e di equipaggiamenti idonei; quale “combat readiness” – prontezza al combattimento-  potranno mai avere le nostre truppe se disponiamo di sistemi e mezzi di serie B, quando si pretende di giocare a livello internazionale con Paesi di serie A? Se il Budget è la metà,  per-persona , di quello dei Paesi delle altre alleanze, NATO, UE e Coalizioni varie, è come se noi pretendessimo con una Fiat Punto di avere le stesse prestazioni di una Mercedes, e alla fine -comunque- gli stessi risultati!
Infine, un’annotazione particolare merita la procedura decisionale e di approvazione dei vari programmi “perché sono state individuate alcune criticità… con sovrapposizione delle richieste dagli Stati maggiori, senza una chiara e condivisa concezione interforze”: ciò è imputato ad “un fattore discorsivo  attribuibile a un deficit di collegialità, e dunque anche alla riforma dei Vertici (sic!)”.
Ragion  per cui appare necessario  “affidare un ruolo consultivo al Comitato dei Capi di Stato Maggiore… nei riguardi del Ministro della Difesa…” che, invece, esiste già con la direzione ed il coordinamento del Capo della Difesa e la partecipazione del Segretario Generale della Difesa, responsabile dei programmi dei sistemi d’arma sotto il profilo tecnico-industriale: è uno dei compiti primari e più delicati dello stesso Comitato.
È poi denunciata “l’assenza di un organismo di controllo sulla qualità degli investimenti -quale è il GAO per gli USA… mentre da noi le valutazioni vengono fatte all’interno di un circuito chiuso, rappresentato dai vertici industriali e dai vertici militari”; ciò, senza considerare che il GAO si basa su un rapporto fiduciario tipico anglo-sassone, e da noi sconosciuto, mentre qui si propone -ponendo ogni sorta di paletti per rallentare le decisioni in merito- addirittura di sottoporre ogni programma Difesa al parere vincolante del Parlamento!  Forse si disconosce che esistono appositi Organismi, forse troppi, per il controllo e la verifica di tali programmi; in primis la Corte dei Conti -omologa al GAO americano e al BOA (Board Of Accounting) inglese- che riferiscono annualmente al Parlamento, anche sull’andamento dei programmi stessi; in parallelo il cd. OIV, Organismo Interno di Valutazione e verifica, ufficio di consulenza diretta del Minidife anche per il controllo interno di gestione in termini di risultati conseguiti, a fronte degli obiettivi programmatici. Inoltre va rammentato che fino ad una decina d’anni fa, esistevano Comitati specifici, i cd. ComiLegge, a cui partecipavano Ministri, Sottosegretari, rappresentanti della Corte dei Conti, del MEF, della Ragioneria Generale dello Stato e perfino dell’Avvocatura Generale, oltre naturalmente ai Vertici militari, che erano preposti ad autorizzare l’avvio dei singoli programmi, pur a fronte di una  già approvata Legge di Programma parlamentare.
Nulla di nuovo sotto il sole, se non la smania -per la verità piuttosto ripetitiva- di tagliare “linearmente” ancora la Difesa fino al collasso, a favore di una fantomatica Difesa europea, ed essenzialmente a scapito dell’operatività e della sicurezza del soldato italiano e della crescita dell’industria nazionale della Difesa: per fare grancassa, e allo stesso tempo, cassa!

GIUSEPPE LERTORA