Bosnia-Srebrenica-Fossa-ComuneA Srebrenica in Bosnia, a circa 20 anni dal più grande massacro di civili dell’era moderna, vengono recuperate ancora ossa umane. Sono ancora in tanti i morti che non hanno nome ne idonea sepoltura. Come ogni anno, nel giorno di questo triste anniversario, vengono anche tumulate le ‘nuove’ vittime di quel genocidio, ritrovate e identificate grazie al test del Dna.  Di recente sono stati recuperati e identificati i resti di 175 vittime. Resti recuperati da varie fosse comuni in cui erano stati gettati. Si tratta di una parte degli 8.372 bosniaci musulmani che vennero brutalmente uccisi e poi, sepolti in fosse comuni in quel luogo durante il conflitto nei Balcani negli anni 1990-1995. Una guerra che causò 100mila morti e 2,2 milioni di profughi e terminata solo con la sigla degli Accordi di pace di Dayton, del 1995. Anche questi resti umani, come è stato per tanti altri ritrovati e identificati in passato, verranno sepolti oggi uno per uno in tombe singole con indicata la propria identità nel cimitero-memoriale di Potocari. Finora le vittime identificate sono poco più di 6.500. La più giovane, nel luglio del 1995, aveva appena 11 anni, mentre la più anziana aveva 82 anni.  Tra gli scheletri identificati un migliaio sono incompleti e i loro familiari hanno finora preferito rinviare la sepoltura nella speranza che le parti mancanti vengano ritrovate. Era il mese di luglio del 1995, ultimi giorni del conflitto, quando a Srebrenica 8.372 bosniaci musulmani  tutti maschi terminarono la loro vita vilmente uccisi dai militari dell’esercito serbo-bosniaco del generale Ratko Mladić. Liquidare anche un solo genere, quello maschile, corrisponde all’annientamento di una intera comunità, che non potrà più riprodursi. Di questo si resero conto i vertici militari serbo-bosniaci e misero in atto il loro piano. Sapevano che per annientare un popolo intero non bastava la “semplice” pulizia etnica. Per essere sicuri che i musulmani bosniaci non sarebbero più ritornati occorreva annientarli. Dall’aprile del 1993 l’Onu aveva posto l’enclave di Srebrenica sotto la sua ala protettiva dichiarandola ‘zona di sicurezza’. L’11 luglio del 1995 però, dopo un lungo assedio i serbo-bosniaci presero Srebrenica e i Caschi blu olandesi del Battaglione Dutchbat III,  circa 400 uomini, che avrebbero dovuto proteggere la città e i suoi abitanti, non opposero resistenza alle forze serbo-bosniache.  A 19 anni dalla strage di Srebrenica tutti  i responsabili di quel massacro sono stati catturati compreso l’ex leader dei serbo-bosniaci Radovan Karadzic e soprattutto  l’ex comandante dell’esercito serbo-bosniaco il generale Ratko Mladic.   Se non fosse stato per il lavoro svolto dai giudici del Tribunale penale dell’Aja per l’ex Jugoslavia il mondo non avrebbe saputo praticamente nulla dei fatti di Srebrenica. Il lavoro svolto dal Tpi su Srebrenica ha permesso di ricostruire l’intera dinamica della strage anche se rimangono alcune inquietanti zone d’ombra, che hanno fermato il tempo a quel luglio del 1995. L’inchiesta ha permesso di svelare tutto il piano attuato dai militari serbo-bosniaci guidati dal generale Mladic. Un piano in cui era stato previsto che dopo la presa dell’enclave e le fucilazioni di massa degli oltre 8mila prigionieri, per lo più civili, si sarebbe dovuto provvedere all’occultamento dei cadaveri. Un’operazione questa che gli uomini di Mladic compirono in soli tre giorni dedicandosi con metodo e con capacità. L’Alta Corte dell’Aja ha raccolto tutto il suo lavoro in un dossier che ha innescato un negazionismo  che è poi, culminato nelle ammissioni di responsabilità dei vertici della Republika Srpska nel 2004. Inizialmente infatti,  addirittura si cercò di far passare i morti di Srebrenica come soldati morti in combattimento. L’evidenza dei fatti  ha confutato tutto.  Quei morti sono tutti prigionieri  civili e  militari che furono ammassati a migliaia e poi assassinati a sangue freddo. Molti avevano con le mani legate dietro alla schiena. Il lavoro svolto dal Tpi ha fatto luce sulla dinamica della strage, la tempistica e la logistica. A  Srebrenica di fatto,  è stato messo in atto un vero e proprio piano di sterminio, il cui obiettivo era quello di eliminare i ‘Bosniacchi’ come erano chiamati  i bosniaci musulmani dalla Bosnia orientale. Un altro punto oscuro rimane ad aleggiare sui fatti di Srebrenica. I caschi blu olandesi presenti nell’enclave non hanno reagito all’attacco dell’esercito di Mladic ne impedito quanto è accaduto dopo la caduta dell’enclave musulmana.  Stranamente l’inchiesta non ha nemmeno rasentato questa dura realtà che nei fatti non è stato altro che un tradimento di quelle genti che si erano affidate ai peacekeepers dell’Onu per essere protette e aiutate. I caschi blu avevano il mandato di disarmare le parti e garantire l’incolumità dei civili. Eppure essi vennero meno al loro mandato, non solo non disarmarono le parti in conflitto, specie i serbi, ma restarono a guardare quando le truppe serbo-bosniache cominciarono a rastrellare gli uomini e a condurli via verso i luoghi della loro fine. I caschi blu olandesi erano acquartierati a Potocari in una ex fabbrica di batterie. I soldati olandesi lasciarono semplicemente il campo libero alle truppe serbe in arrivo, senza neanche sparare un solo colpo anzi cedendo a loro il proprio armamento. Tanto è vero che l’esercito serbo-bosniaco entrò a Srebrenica a bordo dei blindati bianchi dell’Onu. La popolazione corse loro incontro convinta che erano i loro salvatori e solo dopo si accorsero dell’inganno, ma ormai era troppo tardi. Non solo, i cashi blu olandesi nei giorni precedenti disarmarono tutti coloro che si erano posti a difesa dell’enclave musulmana, ma non fecero  altrettanto con le famigerate formazioni assassine delle ‘Tigri bianche’ di Arkan, delle ‘Acquile nere’ di Mladic e delle unità dell’esercito jugoslavo.  Secondo “Medici senza frontiere”, i soldati olandesi si rifiutarono addirittura di occuparsi dei Bosniaci feriti o malati. Dopo la caduta della città esistono testimonianza che il comandante dei Peacekeepers olandesi, Thomas Karremans, si scambiò regali con Mladic e brindò insieme a lui alla vittoria serba. Al loro rientro in patria il governo olandese proibì a suoi soldati di parlare pubblicamente del genocidio avvenuto e furono tenuti isolati per quattro giorni e nemmeno l’inviato speciale dell’Onu, Tadeusz Mazowiecki, potè parlare con i soldati. Ogni tipo di documentazione, fotografie e filmati furono sequestrati, Karremans fu promosso e sparì negli Usa nel suo nuovo ruolo di addetto militare. La responsabilità per aver tradito migliaia di persone poi, uccise dai serbo-bosniaci, la mancata assistenza dei feriti e dei malati e per la complicità con gli assassini non è tanto dei singoli soldati quanto dei vertici dell’esercito e del governo olandese. Tanto è vero che a dare l’ordine di evacuazione ai caschi blu olandesi, senza preoccuparsi minimamente delle migliaia di abitanti di Srebrenica, affamati e disarmati in balia dei serbi non fu l’Onu ma il governo olandese. Nel dicembre 2006 quei soldati sono stati premiati con una medaglia dal governo olandese per la loro partecipazione alla missione in Bosnia. Un ‘premio’ che rappresenta nella sua forma più evidente la persistente volontà di rimozione e l’incapacità di fare i conti con il passato.  Un passato che però, ha pesato sulle coscienze di molti. Nell’aprile del 2002, il governo olandese guidato da Wim Kok decise di dimettersi dopo che l’Istituto per la documentazione di guerra riconobbe la responsabilità dei politici e dei caschi blu olandesi nel non aver saputo impedire quel massacro. Nel luglio del 2011 una sentenza del tribunale penale olandese ha riconosciuto, per la prima volta, la responsabilità dei Paesi bassi per la morte di tre vittime di quel massacro.  Il tribunale civile olandese ha accolto la richiesta di risarcimento presentata dai familiari dell’elettricista Rizo Mustafic, che assisteva il contingente olandese e perse la vita nel massacro, e quella dell’ex interprete dei caschi blu, Hasan Nuhanovic, che nella strage ha perso il padre e il fratello. Il riconoscimento di colpevolezza è stato motivato dal fatto che i tre musulmani lavoravano per i caschi blu olandesi del Battaglione Dutchbat III  e che questi non dovevano consegnarli ai serbo bosniaci. Finora quasi tutti hanno pagato per le loro responsabilità nel massacro di Srebrenica. Grazie allo statuto di immunità di cui gode l’ONU sotto cui l’egida operavano i soldati olandesi saranno proprio questi ultimi che non risponderanno mai delle loro colpe almeno alla giustizia umana.

Ferdinando Pelliccia