La “notte” dei ricercatori

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la-notte-dei-icercatoriTra qualche giorno sarà festeggiata in molte università italiane “La notte dei ricercatori”. Dibattiti e  incontri per portare la scienza tra adulti e bambini. La ricerca porta innovazione e scoperte, e quindi, benessere sia economico che fisico. Tra i giovani ricercatori gira una freddura: “Perché i ricercatori festeggiano di notte?” risposta: “Perché di giorno lavorano come baristi per mantenersi”. Questo settore così importante per la società è innegabilmente in affanno, non solo in Italia, ma in tutti i paesi del sud d’Europa. È ovvio che ora, in Italia, gli occhi di tutti gli italiani sono rivolti a Matteo Renzi, alle sue proposte politiche, sociali ed economiche per cambiare rotta a questo nostro bellissimo paese che, per troppo tempo, è stato in mano a politici miopi ed incompetenti, nel migliore dei casi. Negli ultimi decenni l’Italia è stata, a poco a poco, ma con tenacia, distrutta, sia dal punto di vista industriale, economico, territoriale, che morale. I problemi che ci affliggono, in ogni campo, sono gravi e necessitano di interventi mirati e lungimiranti, che certamente, né la classe politica che li ha prodotti, né quella che ha peccato di omissione, può essere capace di affrontare.

Tra i tanti problemi da affrontare e a cui porre rimedio, il più grave, a mio avviso, è la mancanza di lavoro, a cui si va sempre di più affiancando, la mancanza di speranza in un futuro migliore. I nostri genitori, nonostante fossero cresciuti in un paese che era stato distrutto dalla guerra, sono riusciti a consegnarci un paese florido, ci hanno fatto crescere in un clima di benessere e di sicurezza sociale. Questo è stato reso possibile da una serie di interventi, sia statali che economici, che, senza bisogno di chiamare grandi economisti e premi Nobel, ma solo utilizzando il buon senso comune, hanno consentito al paese di rialzarsi. Per es. le banche iniziarono ad elargire anche piccoli prestiti alle famiglie, anche per l’acquisto di un semplice ferro da stiro. È stato l’accesso al credito, che, in pochi anni, mise in moto l’industria. Questa è stata la chiave del “boom economico” degli anni ’60. E se non si interviene sul sistema bancario, non ci saranno incentivi, né fondi stanziati per le nuove assunzioni, che potranno dare frutto. Bisogna ritornare a valorizzare il lavoro. Basta con stage gratis, dove le aziende usufruiscono del lavoro di giovani laureati a costo zero. Il lavoro va valorizzato e non, come è avvenuto fino ad ora, sminuito.

Il lavoro è un tema centrale nella ormai lunghissima ed esasperata crisi economica. I dati declinati al presente sono spaventosi e all’orizzonte ci sono solo speranze sconfortanti.

Noi che paese offriamo ai nostri giovani?

Dice Renzi: “Noi non ci rassegniamo a dare per scontato che i figli vivranno peggio dei padri. La sfida, per noi, è riuscire a coinvolgere le forze più vitali nella costruzione di un nuovo modello competitivo che abbia lo stesso potenziale di inclusione sociale del precedente”. Siamo tutti d’accordo con lui, su questo punto. Ma, vogliamo guardare un po’, per es., come hanno ridotto la ricerca e le nostre università?

RICERCASi sente spesso parlare degli scienziati italiani che fuggono all’estero, e vengono segnalati dai giornali i casi di questo o quel ricercatore. Spesso sono casi eclatanti, che fanno notizia per ragioni diverse. Si dice che sono tanti, ma non si sa quanti.

Alcuni docenti di Fisica, come il Preside della facoltà di Fisica di Trieste, hanno cercato di dare una risposta a questo quesito. Il risultato è sorprendente. «Abbiamo provato a fare un’analisi usando solo i nostri laureati in Fisica negli ultimi vent’anni, che dopo la laurea, o dopo il dottorato, hanno deciso di andare all’estero a fare ricerca – dicono -. Ci hanno risposto in tanti (troppi…), una settantina, con posizioni che vanno da full professor fino a Ph.D. students. Anche se in difetto i numeri la dicono lunga sul fenomeno, specie se moltiplicato per i circa 30 corsi di laurea in fisica in Italia; significa che migliaia di fisici hanno abbandonato il paese negli ultimi 25 anni. Il costo per formare un fisico, dalle elementari al dottorato,  oscilla tra i 300mila e i 400mila euro (dato riportato nel libro “I Nipoti di Galileo” di Pietro Greco edito da Baldini Castoldi Dalai) il che significa che l’università italiana ha regalato in 25 anni circa un miliardo di euro alle università e centri di ricerca stranieri».

In un mondo globalizzato, in cui talenti e intelligenze circolano liberamente, questo flusso in uscita di scienziati italiani sarebbe solo un segno positivo della qualità dell’Università italiana, se fosse compensato da un flusso in ingresso di talenti stranieri: purtroppo la situazione attuale è invece nettamente sbilanciata verso l’emigrazione.
Nella tristezza della situazione italiana una cosa ci rincuora: i nostri ragazzi di Trieste coprono posizioni importanti in posti che vanno dal Mit, a Caltech, Stanford, all’Università di Cambridge, al Cern di Ginevra, all’Università di Parigi, agli Istituiti Max Planck della Germania. Questo significa che sono bravi, ma anche che sono stati formati bene in questa università italiana cosi denigrata da tanti politici e giornalisti.

Non va meglio la situazione di un’altra prestigiosa Facoltà di Fisica, quella di Roma, quella dei “ragazzi di via Panisperna”, per intenderci.
Tra Roma e Parigi c’è una galleria che invece di sparare neutrini recapita Oltralpe i più brillanti fisici nostrani. Così, la “gaffe” del ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini sull’esistenza di un fantomatico tunnel che collegherebbe il Gran Sasso con Ginevra, diventa la metafora rappresentativa di una realtà nota a tutti i giovani studiosi del settore: se vuoi diventare un ricercatore di fisica devi volgere lo sguardo all’estero, percorrere il lungo “tunnel” che porta a Parigi. Un tunnel percorso da tanti, se è vero che da quelle parti si parla di “invasione italiana”.

Il perché è presto detto. “In Francia – spiega Francesco Zamponi, ricercatore in Meccanica statistica dei sistemi complessi presso il Cnrs, l’omologo francese del nostro Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) – per fare il mio lavoro non devi metterti in coda all’ordinario di turno e aspettare un concorso che potrà non arrivare prima di cinque o dieci anni, ma puoi giocartela ogni anno grazie ai bandi del principale ente statale deputato alla ricerca di base”.  Tempi certi, posti programmati, trasparenza e tempo indeterminato, questi gli ingredienti che rendono incomparabilmente più attrattivo rispetto al nostro il sistema di reclutamento transalpino. “Qui – continua Zamponi – il concorso Cnrs non solo si svolge con cadenza annuale, sempre nello stesso periodo, ma le università bandiscono un numero di posti che rimane costante, in modo che ogni studioso possa sapere in anticipo le disponibilità, cominciare a mettersi alla prova e rendersi conto prima possibile delle proprie possibilità di successo. In Italia, ammesso e non concesso che i concorsi si continuino a fare, accade l’esatto contrario: si accumulano per anni generazioni di studiosi per poi essere assunti tutti, o quasi, in una volta sola. Non c’è bisogno di uno scienziato per capire che si tratta di un reclutamento improvvisato, che mortifica invece di valorizzare”.

L’annus mirabilis della fisica italiana in Francia,  è stato il 2007, quando al concorso del Cnrs gli italiani ottennero, nelle classi di fisica, circa il 35 per cento dei posti banditi (il 71 nella sola classe di fisica teorica). Eppure anche in Francia ai ricercatori sono stati tagliati i fondi per la ricerca. Infatti hanno deciso di scendere in piazza non per festeggiare, ma per protestare contro i tagli alla ricerca. Convergeranno su Parigi a piedi e in bicicletta in occasione della festa della Scienza, dal 27 settembre al 19 ottobre 2014. Le varie tappe saranno costituite dalle città universitarie, con conferenze stampa, conferenze pubbliche, animazioni del lavoro scientifico per spiegare cosa vuol dire ricerca al grande pubblico. Si tratta di Science en marche, iniziativa che si propone di ridare alla ricerca scientifica la centralità che merita dopo i tagli imposti dall’austerità. L’iniziativa dei ricercatori francesi (www. science senmarche.org) è stata rilanciata dall’associazione italiana Roars(www. ro ars . it ), un network informale che vuole intervenire “in modo credibile e competente” nel processo di trasformazione dell’università italiana. La proposta di Roars è che il 19 ottobre si tengano iniziative in tutte le università e nei centri di ricerca. Dal 2008 le università e i laboratori italiani hanno perso il 18,7per cento dei finanziamenti statali, il 100 per cento dei fondi per la ricerca di base e il 90 per cento dei reclutamenti (meno10 mila ricercatori). Altrove non è andata meglio: Spagna,Portogallo, Grecia e Francia affrontano tagli spaventosi. Al contrario, paesi come Germania,Olanda e Inghilterra hanno retto l’urto della crisi, e non sempre per meriti propri, anzi, ai cervelli migranti si sono affiancati i fondi europei vinti dai ricercatori in rotta verso il Nord. Il drenaggio è nei numeri, lento, inesorabile e in atto da almeno una decade. A parte gli scienziati, nessuno sembra accorgersene, e il motivo è semplice: tutto è in uno stato di coma vigile, le risorse che ci sono bastano solo a mantenere in piedi la struttura, e nulla più, mentre pezzo dopo pezzo il crollo della spesa e la fuga di ricercatori, dottorandi e post-doc ne mina le fondamenta, compromettendone il futuro.

In Italia, secondo l’Associazione dei dottori di ricerca, dei 15.300 assegnisti attivi nel 2013, il 96,6 per cento non continuerà a fare ricerca Secondo l’Ocse, nel 2012, fatta eccezione per Germania, Svezia, Danimarca e Finlandia, l’Europa ha fatto registrare una spesa per ricerca e sviluppo inferiore al 3 per cento del Pil fissato come obiettivo dal Trattato di Lisbona (2007). L’Italia ha destinato solo l’1,3 per cento della ricchezza nazionale ed è 32esima (su 37) nella classifica Ocse nella spesa per università. I tagli imposti dall’austerità fiscale non impattano sulla bravura degli scienziati, semplicemente li costringono a emigrare. Per dare l’idea, a gennaio scorso l’European research council (Erc) ha assegnato 312 Consolidator Grants, fondi di ricerca attribuiti a scienziati con una discreta esperienza accademica e dagli importi molto alti: si arriva fino a 2,75 milioni di euro (per un totale di 575 milioni). Gli italiani ne hanno vinti 46, due in meno della  Germania primatista (Francia e Inghilterra sono molto indietro). Un risultato straordinario che testimonia l’enorme potenziale della ricerca italiana. Peccato però che solo 20 arriveranno nel nostro Paese, gli altri voleranno via: 50 milioni (più i circa 500.000 euro a testa che è costata la loro formazione) che regaleremo alle università che hanno accolto i ricercatori italiani a braccia aperte. Succede così che l’Inghilterra, che ne ha vinti molti meno di noi, grazie all’esodo dal basso realizza il punteggio migliore (62), la Germania tiene e la Svizzera raddoppia. L’Italia? Solo uno dei premi è stato vinto da un ricercatore di stanza all’estero, che (presumibilmente) rientrerà in patria. Così si vive alla giornata: non è possibile fare progetti a lungo raggio, chiamare qualcuno dall’estero o stabilizzare un ricercatore, perché non c’è alcuna garanzia che ne vincerai altri in futuro.

Il sistema funziona così: fatti cento i fondi per università e ricerca, 90 arrivano dallo Stato e dieci dall’Europa. I primi coprono la gestione ordinaria, i secondi la ricerca avanzata. Sulla carta ci sarebbero anche i fondi per la ricerca di base.  Che fine hanno fatto? Spariti nel nulla. Dal 2009 al 2012 la prima sforbiciata (70 per cento) poi il taglio netto. Fatta eccezione per Germania e Svizzera è così. In Inghilterra i fondi non sono stati tagliati ma neanche incrementati: questo ha fatto sì che in 4 anni l’inflazione ne rosicchiasse il 20 per cento. Ma il problema è culturale: l’università italiana è un club ristretto, bisogna trasformarla in una comunità aperta. Per intenderci, la percentuale di stranieri nel mondo accademico inglese è il 30 per cento, in Svizzera si arriva al 40, in Italia non superiamo il 5. Nonostante sia assodato che l’investimento statale in ricerca è uno dei motori principali dello sviluppo economico, non c’è nessuno sforzo per dirigere la spesa pubblica verso quei settori di qualità che potrebbero dare, nel medio e lungo termine, una struttura solida al tessuto produttivo. Al contrario, nel campo della ricerca è in atto un trasferimento di risorse finanziarie e umane dai paesi dell’Europa meridionale a quelli dell’Europa settentrionale che ne amplifica le differenze inibendo ogni speranza di ripresa. Non si assiste a un normale processo di internazionalizzazione, in cui ognuno ha da guadagnare, ma a un esodo che impoverisce solo alcuni paesi,tra cui il nostro. Tanto più che in genere sono proprio quelli più bravi a non aspettare il loro “turno”. “La verità è che appena un giovane respira l’aria pulita di un paese straniero decide di non tornare più indietro”. Lo stesso fenomeno avviene in Biologia, Matematica, Chimica, e quindi quel miliardo diventa ben di più.

Con l’abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato, la riforma Gelmini ha cambiato radicalmente il modo in cui l’università recluta il personale docente. Oggi per i ricercatori precari esiste solo una strada per accedere alle posizioni di ruolo: vincere un concorso da ricercatore a tempo determinato (RTD) “di tipo b”. Si tratta di una posizione che dura tre anni, al termine dei quali l’ateneo, se possiede le risorse necessarie, valuta nuovamente il ricercatore ai fini della “promozione” a professore associato (sempre che nel frattempo il candidato abbia ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale). I concorsi RTDb insomma svolgeranno un ruolo cruciale nella definizione degli organigrammi dell’accademia, e anche dalla trasparenza di queste procedure dipende il futuro dell’università e della ricerca italiana.  Futuro che rischia di essere nero, ancora più di quanto i limiti al finanziamento già lasciano presagire.

Con i concorsi RTDb, infatti, le manipolazioni non si effettuano in sede di valutazione, ma più comodamente redigendo un bando di concorso che richieda al candidato dei requisiti talmente specifici, perché ritagliati sul profilo di un “predestinato”, da rendere impossibile la competizione. La norma implementa la raccomandazione della Commissione Europea che chiede il rispetto dei principi enunciati dalla Carta europea dei ricercatori. Gli atenei “dovrebbero istituire procedure di assunzione aperte, efficaci, trasparenti, favorevoli, paragonabili a livello internazionale” e gli annunci “dovrebbero contenere un’ampia descrizione delle conoscenze e delle competenze richieste, ma non dovrebbero richiedere competenze così specifiche da scoraggiare i potenziali candidati. La situazione è aggravata dal modo in cui sono formate le commissioni. Prima la loro composizione era definita dalla legge, che al commissario “interno” ne affiancava altri due sorteggiati in una lista di “esterni”. Ora la formazione delle commissioni è demandata ai regolamenti di ateneo, col risultato di una estrema diversificazione: si va dagli atenei virtuosi che scelgono il sorteggio integrale ad altri che blindano i posti in palio con delle commissioni integralmente “fatte in casa”.

Così, una riforma nata per “togliere potere ai baroni” (secondo gli annunci del ministro di allora, quello dei neutrini in gita nel tunnel), ha di fatto aumentato la discrezionalità e l’arbitrio baronale.

Ma è chiaro che il problema deve essere risolto alla radice, facendo rispettare l’obbligo per tutte le università di bandire concorsi aperti e trasparenti come prescrive la Carta europea dei ricercatori. E vista la recidività di tanti atenei, è il Ministero che deve prendere l’iniziativa. L’università italiana non ha futuro se non si ripristina la legalità nelle procedure di reclutamento. Renzi, recentemente, ha affrontato il problema della ricerca e delle università, affermando: “Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca. Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine. Le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centoottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei vertici mondiali”.

La riforma del sistema universitario e della ricerca, in Italia è certamente necessaria, se si vuole competere con gli altri stati europei. La Germania, per es., sta discutendo di questo e ha già aumentato le risorse finanziarie alla ricerca e alle università, nonostante la crisi, per porsi in una posizione di egemonia perfino sulla Gran Bretagna. L’Italia riesce comunque, nonostante i tagli continui, a piazzare nel novero dei 500 atenei nelle posizioni più alte in media una ventina di sedi, e, tenendo conto che le università prese in considerazione nel mondo sono, tra le dieci e le diciassettemila, essere cinquecentesimi rende assai più simili a Harvard che a una università “media”.

I futuri governi devono capire che la ricerca crea innovazione e imprese che producono e che assumono. Questa è una delle strade maestre da percorrere quando si parla di lavoro.  E’ vero che non tutti i nostri ragazzi faranno i ricercatori, e che bisogna affrontare le problematiche legate ad altri settori che daranno lavoro, come quello del turismo o quello dell’agro-alimentare o della ristorazione, o dell’artigianato. Quello che è certo è che abbiamo bisogno di giovani competenti e di scuole che li sappiamo formare. Ma questa è un’altra storia, di cui parleremo successivamente.

Patrizia Bilardello