militari AfghanistanPrima di Natale avevo avvertito la necessità di esprimere la mia opinione e le mie preoccupazioni per il ritiro delle truppe della NATO/ISAF dal teatro afgano, cercando di sensibilizzare i responsabili della Coalition circa la sindrome del ritiro anticipato, i suoi risvolti negativi , e con quale coscienza lasciavamo quel Paese in balia dei feroci Talebani che non solo sono più forti di prima, ma anche più esasperati, mentre le forze locali “regolari” sono ancora inadeguate e poco affidabili. Cioè lasciamo così un Paese senza una vera ricostruzione sociale, senza una riconciliazione fra le diverse etnie, con un neo-presidente Ghani, senza delle rodate istituzioni che possano sopravvivere al pesante urto dei rivoltosi, della dilagante corruzione, e dei “signori del potere” che continuano a fare il bello e il cattivo tempo in quella tormentata area, dove le vere libertà sono solo apparenti e di certo non interiorizzate.

Non bisognava avere un master in geostrategia per capire che una situazione analoga l’avevamo già vista e vissuta dopo il ritiro, un ripiegamento troppo affrettato, delle truppe dall’Iraq : anche là dopo l’apparente “mission accomplished” sul piano militare e la detronizzazione del tiranno Saddam, abbiamo abbandonato quel popolo, lasciandolo nel guado con problemi abnormi nel sociale, confidando ipocritamente nelle possibilità che le loro ‘acerbe” istituzioni e impreparate forze dell’ordine, sarebbero riuscite ad avviare una nuova statualità con forme pseudo – democratiche e liberali. Le feste natalizie hanno imposto, per motivi comprensibili, di lasciare maturare l’articolo e riprenderlo, dopo ulteriori riflessioni, col nuovo Anno, visto che la ‘exit strategy’ si sarebbe comunque sostanziata a partire dal 2015, con l’uscita di scena dell’ISAF rimpiazzata dall’operazione “Resolute Support” di supporto e assistenza , ma gli eventi si sono accavallati con gli efferati attacchi terroristici parigini, imprimendo un’accelerazione mediatica almeno in termini di più spinta attualità. Va detto che, comunque, al di là della predetta ovvia accelerazione, le considerazioni qui espresse prescindono dai recenti luttuosi eventi, e sono frutto di una equilibrata e modesta analisi suffragata dalle opinioni di alcuni fra i più esperti think-tank , guarda caso, d’oltreoceano! La situazione geopolitica che investe i Paesi mediterranei, dalla guerra civile in Libia a quella siriana, con la presenza sempre più preoccupante delle forze dell’Islamic State -ISIS- in parte dell’Iraq e della stessa Siria, e la non trascurabile riviviscenza di al Qaeda con il recente vile attacco in Francia, impone accurate analisi e diverse riflessioni sulla strategia adottata in generale finora, e di quella -altrettanto delicata- da porre in essere per il ritiro delle truppe della Coalition dal tormentato Afghanistan.
E’ ormai acclarato che la sindrome del ritiro anticipato delle truppe US e NATO da un conflitto abbia generato situazioni ingovernabili, spesso di guerra civile, facendo cadere il Paese “liberato” in condizioni peggiori di prima dell’intervento armato. Spesso, come diretta conseguenza, si riscontra anche la rinascita di fenomeni etnico-religiosi fino allora più o meno sopiti, o la rivitalizzazione del terrorismo al qaedista , ed il sorgere di coalizioni terroristiche, quali l’ISIS, con cui il mondo occidentale e la comunità internazionale debbono confrontarsi per arginare i nefandi effetti in termini di sicurezza globale. Va anche detto, obiettivamente, che molti di questi deteriori effetti provengono dall’occupazione dell’Iraq; molto è dipeso dalla strategia, e anche dagli errori sul piano della politica estera, soprattutto dell’amministrazione statunitense: ora bisogna evitare che succedano gli stessi disastri anche dal ritiro dal teatro afgano.
Alcuni passaggi sono fondamentali per capirne le motivazioni. Poco prima del Natale 2011 il Presidente Obama, già orientato a far rientrare le truppe dall’Iraq, secondo le promesse fatte in campagna elettorale, aveva dato corso a una campagna comunicativa tale da far credere che era giunto il momento del ritiro poiché, testualmente, riteneva “l’Iraq uno Stato sovrano, stabile ed autonomo, con un governo rappresentativo della volontà del suo popolo…”: una ulteriore menzogna in una guerra nata bugiarda, nel senso che le premesse sulle famose armi di distruzione di massa si sono poi rivelate false, detta stavolta per nascondere lo smacco subito col rifiuto del governo iracheno di concedere l’immunità funzionale e giuridica alle truppe US sul terreno. Nel breve volgere di una settimana, fra Natale e Capodanno del 2011, avvenne infatti il tumultuoso ritiro di tutti i soldati US, con il trasferimento delle responsabilità al governo dello sciita al- Maliki, e una residuale competenza di assistenza all’ambasciata statunitense a Bagdad. Cominciò da allora, com’era ampiamente prevedibile, una stagione di terrore e corruzione manifesta a tutti i livelli; alcuni giorni dopo fu arrestato il vice Presidente sunnita al-Hashimi, con l’accusa di terrorismo. E, fra attentati quotidiani con numerose vittime, il governo di al-Maliki ha attuato una sistematica eliminazione dei capi sunniti, ma anche dei propri avversari sciiti, accusandoli di affiliazioni terroristiche e dichiarandoli, quindi, fuorilegge. L’epurazione sistematica ha contribuito a portare l’Iraq in un vortice d’inusitata violenza, peggiore di quella sofferta durante l’occupazione straniera; il governo ha destituito tutti gli Ufficiali Sunniti e Curdi con altri incapaci e teoricamente fedeli, appropriandosi completamente dei settori dell’Intelligence e della Sicurezza interna. Infatti, al-Maliki non ha mai nominato né il Ministro dell’Interno e neppure quello della Difesa, mantenendoli ad interim nella propria persona e contornandosi di proprie forze di polizia, in sostanza di pretoriani disposti a tutto, creando le premesse per una pericolosa dittatura che, fra l’altro, ha spinto i Curdi a ricercarsi una ovvia, quanto necessaria, indipendenza da Bagdad, in considerazione delle diverse risorse energetiche delle parti. Anche il nuovo capo del governo iracheno al-Abadi si trova oggi a navigare in un mare di corruzione che affligge tutta la società e in particolare le forze armate che hanno una scarsa efficacia ed una consistenza reale assai più modesta di quella dichiarata; non solo, l’arruolamento delle reclute, manipolato e mercenario, rappresenta una rilevante fonte di corruzione, ed al tempo stesso di inaffidabilità concreta, come in molti altri Paesi incluso l’Afghanistan. Con il fallimento dei negoziati in merito ad un nuovo SOFA (status of force agreement) e il ritiro natalizio si sono create quindi le condizioni per un regime dittatoriale da un lato, e dall’altro la nascita di quell’ISIS che, a oggi, ha acquisito il controllo di una vasta porzione della Siria e dell’Iraq su un territorio più grande dell’Inghilterra, con l’intendimento di costruirvi un Califfato caratterizzato da inaudite violenze che fanno rimpiangere quelle occorse nel 2008. ISIS, quale successore apparentato di al Qaeda, anche se a esso in parte conflittuale, diventa ogni giorno una realtà in crescita non solo operativa ma politica; ha fatto “carne di porco” degli sciiti, delle minoranze religiose, e perfino dei sunniti non allineati, presenti sui territori, imponendo una tirannica versione della legge islamica sui residenti e tagliando le gole agli ostaggi occidentali, con una evidente quanto deprecabile globalizzazione mediatica di quei misfatti. Fanatici religiosi e facinorosi, ma ben attenti a programmare strategie di lungo corso che sfruttano abilmente efficaci tecniche di comunicazione finalizzate ad attirare adepti in, e da, tutto il mondo occidentale: ciò costituisce una seria minaccia, da valutare in modo approfondito, per la sicurezza internazionale, e quindi occidentale in particolare.
L’uscita di scena degli americani è stata quindi una vera tragedia ma prevedibile; il ritiro di oltre 50000 soldati alla fine del 2011, senza una qualche fase transitoria e senza che restasse un cospicuo nucleo di continuità in loco per garantire un minimo di assistenza e sicurezza, sono le cause del fallimento della politica di Obama nel voler ritirare ad ogni costo quel contingente, senza battersi con la dovuta priorità per garantirne l’immunità giuridica in quei teatri.
Di conseguenza, anche per i ristretti tempi in gioco, è stata vanificata una qualsiasi strategia che consentisse di lasciare il Paese, capitalizzando quei “frutti” maturati durante la presenza di oltre otto anni sul territorio iracheno. Di più, tutti stanno pagando un prezzo altissimo in termini di sicurezza, proprio per quel disastroso fallimento: gli USA e il mondo occidentale in quanto minacciati dai terroristi di ISIS, e da quelli di al Qaeda tutt’altro che defunti, ma soprattutto i popoli di quei territori occupati che sono quotidianamente martoriati dai loro seguaci. Né può essere motivo di soddisfazione il tentativo di controbilanciare tali insuccessi con il ritorno degli USA in Iraq per “demolire e distruggere definitivamente ISIS”, dopo che Obama aveva dichiarato la sua totale contrarietà alla guerra irachena. Né la colpa degli scarsi successi nei confronti di ISIS, sia in Siria come in Iraq per tacere della Libia, può essere imputata al Segretario alla Difesa Hagel che è stato recentemente silurato da Obama; in effetti la sola guerra aerea, fatta con caccia e droni, ma senza “scarpe sul terreno”, potrà alla lunga eliminare i capi dei terroristi, ma di certo non riuscirà a sradicare in pieno la loro organizzazione. Ci vuole ben altro; innanzitutto esiste la necessità di avere truppe sul terreno che controllino il territorio per prevenire che gli orfani gruppi d’insorti o di terroristi possano confidare nella loro organizzazione e, quindi, rigenerarsi. Da tali erronei comportamenti, e sottovalutazioni di ordine non solo operativo, numerose sono le lezioni da apprendere che dovranno, dopo ponderata valutazione, essere applicate a maggior ragione all’exit- strategy dall’Afghanistan che si profila assai simile e, quindi, foriera di disgrazie per tutti. La prima considerazione da fare, fra molte altre, riguarda non tanto le operazioni militari che normalmente hanno portato alla vittoria seppure con migliaia di perdite di vite umane, ma la fase successiva al combat, cioè quella di “consolidamento e ricostruzione sociale” che dovrebbe sempre essere parte del più generale “End State” (scopo ultimo) della missione, per evitare di fermarsi a delle “pericolose incompiute”. E’ ovvio che, per mantenere e consolidare l’ordine pubblico, dopo una fase bellica, c’è bisogno di forze di polizia e anche di forze armate locali ben equipaggiate e addestrate; c’è bisogno di finanziamenti adeguati per disporre di forze al servizio di un governo democraticamente eletto, onesto e stabile, con rappresentanza multilaterale delle varie etnie e religioni, che diventi un’alternativa, o meglio un’attrattiva sociale rispetto alle fazioni in conflitto, al precedente caos e alle nefandezze degli insorti e dei terroristi. Non si ricostruisce il tessuto sociale di una Nazione solo con le armi e decapitando i dittatori o i capi dei terroristi, e neppure con la sola assistenza umanitaria e rifornendoli di viveri e medicinali; una nazione, per essere tale, non richiede l’apporto di stranieri se non per assistenza, ma il convinto appoggio e consenso degli indigeni, e una pianificazione specifica per la riconciliazione interna fra i vari poteri, con supporto intelligente e non invasivo per soddisfare al meglio le esigenze sociali di quel popolo. La prima cosa da fare, dopo il ribaltamento di un regime dittatoriale, è infatti quella di mettere in pratica con trasparenza “la legge e l’ordine”, colpendo chirurgicamente la residuale metastasi del terrorismo con azioni delle Forze Speciali e di controterrorismo, anziché limitarsi a colpire dal cielo i siti e le città, con gravi effetti collaterali che alimentano l’odio contro gli occupanti. Basta guardare l’Iraq e anche la Libia; i dittatori sono stati eliminati ma quando si è trattato di aiutare i neo governi raffazzonati ad esercitare la loro azione sulla gente e sul territorio, ben poco è stato fatto e la situazione in entrambi i Paesi è caotica e oggi fuori controllo, peggio di prima! E c’è il rischio che la comunità internazionale dovrà rimetterci mano per evitare bagni di sangue e soffocare la nascita di terrorismi di vario genere, deteriori per la sicurezza di tutti. Sembra, per contro, quasi che il compito esclusivo si limiti a eliminare i dittatori, mentre il periodo post- guerra vera e propria, non interessi a nessuno. Talvolta le cause sono legate a brusche sterzate nella politica estera degli occupanti connesse col cambio della leadership; spesso, e più in generale, non viene data la dovuta priorità alla fase ultima dell’End State, cioè la ricostruzione dell’organizzazione sociale e di un governo stabile di quella nazione. Tuttavia, gli errori fatti in tutti i teatri partono da lontano; fra i peccati iniziali, si riscontra la scarsa conoscenza degli occupanti delle tradizioni locali, delle loro etnie e religioni, dei loro problemi sociali e poteri, l’incapacità di parlare la stessa lingua degli indigeni: questioni basilari che, in futuro, se si vorrà concretare la fase di ricostruzione di un popolo, senza lasciare pericolose incompiute, dovranno essere curate con la stessa priorità della preparazione professionale dei soldati.
Per Obama si presenta ora l’occasione di non ripetere almeno gli stessi errori e mosse già fatte in Iraq; si tratta in primo luogo di riconoscerli ed assumersene la responsabilità, facendo una valutazione complessiva e puntuale della missione NATO in Afghanistan, apportando le opportune modifiche al piano di ritiro delle truppe, ora stabilito in via definitiva, nel 2016. Lasciare soltanto 12000 soldati, di cui circa 5-700 italiani, concentrati a Kabul (e il resto del Paese?) per supportare i 350000 afgani delle forze di polizia, appare assai rischioso; ciò anche tenendo di conto degli attuali negativi indicatori: nell’ultimo anno le vittime civili sono aumentate del 20% superando le 3000 unità che si affiancano al rilevante numero di quelle delle Forze di Sicurezza che hanno superato le 4600 unità! Il target di creare le condizioni in cui il Governo afgano sia in grado di esercitare la propria autorità in tutto il Paese, con lo sviluppo di Forze di Polizia e Forze Armate qualitativamente capaci e professionali, sembra tuttora lontano se non utopistico da raggiungere nel 2016 quando tutte le forze NATO lasceranno l’Afghanistan. Emblematiche sono, in tal senso, le risultanze espresse da una specifica Commissione autonoma del centro di analisi della Marina US, incaricata dal Congresso di esprimere una concreta e comparata valutazione della situazione della sicurezza in quel Paese: oggi lì esiste lo stesso “gap capacitivo” nelle Forze istituzionali che esisteva nel 2011 in Iraq, all’atto del ritiro, e tali deficienze non potranno essere colmate, bene che vada, entro il 2018. Quindi la decisione di ritirare in anticipo i contingenti in una situazione così precaria è una questione strategica, ma soprattutto politica nel senso che i tax-payer sono stanchi di pagare un conto indefinito per quel teatro, quando abbiamo alle porte di casa l’ISIS e la Libia che ci preoccupano non poco. Mettiamo in conto che, comunque, se il ritiro avverrà nei termini pianificati, porterà a criticità nel livello di sicurezza sociale, ponendo una minaccia forte ed esistenziale per lo stesso governo di Kabul; di più, col rischio che se il deterioramento della situazione diventa insopportabile con effetti “rebound” del tipo sperimentato con ISIS, si dovrà pensare non solo a guerre aeree, ma ad un ritorno dei militari in quei teatri che pensavano di aver lasciato per sempre. Se non si cambia strategia nel ritiro dall’Afghanistan, l’equazione sarà irrisolta e ne vedremo delle belle; le criticità sperimentate a Bagdad saranno eguali a quelle future di Kabul, e all’ISIS sarà sufficiente sostituire i Talebani: qualcosa già visto… un arrivederci doloroso, più che un addio!

Giuseppe Lertora