“Il pool deve morire davanti a tutti”. “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”. (Paolo Borsellino)

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COSA NOSTRA: UN MALE ANTICO

Dal tenente Joe Petrosino al Procuratore Paolo Borsellino, solo nel secolo scorso oltre 200 le vittime tra le istituzioni e la società civile ad opera della Mafia. Senza considerare quelle appartenute (migliaia) allo stesso crimine organizzato. Durante gli 83 anni trascorsi tra la morte dello “sbirro” venuto da New York (1909) e quella del magistrato “più giovane” d’Italia (1992) è accaduto un po’ tutto, forse troppo. Due guerre, il ventennio fascista e la dura sfida del prefetto Mori, l’anticomunismo isolano post bellico, la banda Salvatore Giuliano, la ricostruzione edilizia, il “sacco” di Palermo, il boom degli anni Ottanta e l’ascesa dei “viddani”: i Corleonesi. Portella della Ginestra, Ciaculli, Capaci e Via d’Amelio, stragi senza mandanti, così come i singoli (si fa per dire) attentati a Giuseppe Russo, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Lenin Mancuso, Emanuele Basile,Gaetano Costa, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Giuseppe Montana, Ninni Cassarà, RosarioLivatino, Antonio Scopelliti e… una lunga e tristemente nota lista senza fine. La “mano nera”, rurale e latifondista di un tempo, si trasforma grazie agli Americani di Charles Poletti, alla “restaurazione” voluta per lo Sbarco in Sicilia e all’avvento della DC “palermitana” (quella di Lima, Ciancimino e Gioia) nella grande piovra denominata Cosa nostra. E poi… oltre al racket, all’abusivismo selvaggio e al controllo degli assessorati ai lavori pubblici arriva il redditizio traffico internazionale di stupefacenti, quello che ha visto coinvolte le nostre “famiglie” con le cosche emigrate oltreoceano. La rete si allarga a tutti i continenti e l’affare Pizza Connection(uno dei tanti) ne è la riprova, così come i fitti collegamenti con il potente clan italo-canadese dei Cuntrera-Caruana. I Gambino, i Genovese, i Bonanno, i Lucchese e i Colombo, in stretto contatto dapprima con il boia di Peppino Impastato, lo “Zio” Tano Badalamenti di Cinisi, i vari clan cittadini dei Bontade-Inzerillo-Riccobono e poi, con le “belve” di Corleone capitanate dal Luciano Liggio, soprannominato la Primula rossa, seguito di gran carriera dai suoi fedelissimi “picciotti”; Riina, Bagarella e Provenzano. Ed è proprio un soldato di Vito Genovese di nome Joe Valachi che, negli Usa, rende pubblico per la prima volta davanti alla commissione McLellan il termine (Cosa nostra), oramai diffusissimo e che tutti oggi conosciamo. Mano nera, mafia, onorata società, ma in realtà è una “Cosa loro”, è sempre stata una questione di business che spesso si è ben integrato con i nostri cari politici, governanti locali e qualche cellula deviata delle nostre istituzioni. Non a caso è lo stesso Borsellino che conia la famosa teoria che afferma, con cognizione di causa, che: Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

Naturalmente, per chi non si è voluto inginocchiare ai diktat di questo tacito accordo, ha pagato in prima persona e nella maniera più brutale. Tra questi (magistrati e uomini delle forze dell’ordine a parte), anche gli “eletti” non in linea con le direttive della “Cupola”, come Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale inquilino del Quirinale o il segretario PCI Pio La Torre. Nemmeno la cosiddetta società civile è rimasta immune agli attacchi: i temerari giornalisti dell’indimenticabile quotidiano L’ORA, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato. Forse quel titolone in prima pagina “PERICOLOSO”…con sotto l’immagine spavalda di Liggio non ha lasciato scampo, ne a loro ne alla testata palermitana che poi è andata a perire in una lenta agonia. Oppure l’omicidio di Mario Francese, giornalista prima de “La Sicilia” e poi de “Il Giornale di Sicilia”, reo di aver avuto un ruolo determinante nella ricostruzione e l’analisi dell’organizzazione mafiosa, in particolare dell’ala legata ai corleonesi Liggio e Riina.
Tanti i morti ammazzati tra gli uomini dello Stato (quello SANO), crivellati nei vicoli e nelle piazze di una delle città più belle del mondo, nell’isola che è una vera “perla” del Mediterraneo e in una regione che – artisticamente – fuori confine ce la invidiano tutti. Dalla doppietta, alla lupara bianca, passando per gli Ak-47 Kalashnikov fino al T4, TNT e tutta una serie di esplosivi che, a Capaci così come in Via Mariano d’Amelio hanno lasciato “sul campo” uomini di altissima levatura professionale ma soprattutto morale. L’ultimo dei più grandi è lui, Paolo Borsellino, a cui oggi l’Italia intera gli dedica una preghiera, un elogio, un ricordo e lo commemora con estremo rispetto in ogni luogo della nostra Penisola.

UNA VITA PER LA GIUSTIZIA

Trascurando la sua infanzia e l’adolescenza, quest’uomo, nato il 19 gennaio ’40 nel capoluogo siciliano, di famiglia borghese, diventa magistrato a soli 23 anni. Il più giovane in quel ruolo. Pretore a Mazara del Vallo e poi a Monreale stringe in pochi anni un rapporto affettuoso e solidale con il capitano Emanuele Basile e successivamente con il suo mentore, il giudice Rocco Chinnici. Grazie allo straordinario operato che lo ha sempre contraddistinto si trasferisce, alla metà degli anni Settanta, presso l’Ufficio Istruzioni di Palermo, uno dei posti più difficili e nevralgici dello Stivale. Il periodo è molto delicato poiché lo scontro interno tra i “mandamenti” è acerrimo e spietato. Ci sono i “campagnoli” che vogliono ricostruire la “Commissione”, spazzando via i ricchi Palermitani, fino ad allora i veri capi indiscussi. È il grande momento per gli uomini di Corleone, l’ascesa dirompente verso un comando senza precedenti. Sentito il rischio e captato il pericolo, Don Totò (Riina), divenuto leader feroce e senza scrupoli, li anticipa sul tempo e da inizio ad un vera e propria epurazione della concorrenza.

Isola Badalamenti dalla Commissione già nel 1978 preferendogli Michele Greco detto il Papa, poi avvia nel biennio tra l’’80 e l’82 una serie di omicidi illustri atti ad eliminare i vertici della vecchia cupola, a partire da Stefano Bontade nell’81 (il Principe di Villagrazia), seguito dai fratelli Inzerillo (Salvatore e Pietro), da Rosario Riccobono di Partanna ed infine con lo sterminio di gran parte della famiglia Buscetta. Il messaggio è diretto e chiaro: è lui il nuovo padrone della Sicilia e gran parte dei territori verranno affidati ai suoi fedelissimi; Michele Greco, Bernardo Provenzano e Pippo Calò. È la “famiglia” il nocciolo duro, quel genere di “famiglia” da cui è vietato separarsi, con una struttura verticistica e piramidale estremamente più ferrea di quella militare. Paolo Borsellino, nei primi anni Ottanta, prosegue la complicata attività investigativa intrapresa dal defunto capo della mobile Boris Giuliano e, dopo l’atroce fine di Basile, insieme a Chinnici da l’avvio a quello che negli anni a seguire diventerà il “pool” antimafia. I due amici e collaboratori sono i reali fautori di quel gruppo che condurrà i “mammasantissima” alle sbarre nel famoso maxi processo del 1986. Era un primo embrione che, dopo la morte di “Rocco” nel 1983, si tramuterà nell’efficace struttura oggi nota a tutti, passata successivamente sotto la guida esperta di Antonino Caponnetto, giunto da Firenze. Nonostante la perdita dei cari Basile e Chinnici, Borsellino non solo non intende mollare pur sapendo i rischi a cui si era esposto ma diventa una delle punte di diamante, insieme a Giovanni Falcone, del gruppo storico che dichiarerà guerra totale alla lunga mano armata di Cosa nostra. A loro si affiancheranno Giuseppe di Lello e Leonardo Guarnotta. Cominciano così le lunghe notti insonne, il soggiorno all’Asinara e l’instancabile lavoro che lo vedrà protagonista di un’escalation vittoriosa fino all’aula bunker di Palermo. Grazie anche alle clamorose rivelazioni del “boss dei due mondi” Don Masino Buscetta, il pool di Paolo e Giovanni fa scattare il famoso blitz di San Michele la mattina del 30 settembre 1984, emettendo 366 tra mandati di cattura e ordini di custodia cautelare. Seguiranno, con le ulteriori confessioni di Salvatore “Totuccio” Contorno, altri 127 ordini e 56 arresti in tutta Italia. É l’autunno del 1984, il momento in cui inizia l’assalto alla criminalità organizzata Sicula. Terminate le indagini preliminari durate quasi un anno, il Giudice Capo del pool Antonino Caponnetto emana, l’8 novembre 1985, l’ordinanza-sentenza chiamata “Abbate Giovanni +706”. Otto mila pagine per 707 indagati, di cui 475 rinviati a giudizio e 231 prosciolti. Dopo tale ordinanza si apre ufficialmente il 10 febbraio 1986 il maxi processo davanti ai mass media di tutto il mondo. Centinaia gli uomini delle cosche dietro le sbarre, tra i quali personaggi eccellenti come Pippo Calò e Michele Greco. La coppia Falcone-Borsellino è ormai scortatissima e divenuta, a livello internazionale, una celebrità giudiziaria da emulare, soprattutto tra i loro colleghi Statunitensi. Anni di vita in comune inseparabili,  di grandissima amicizia e principalmente di stima reciproca, fino al punto in cui, a processo in corso, ottiene l’incarico di Procuratore a Marsala. Mossa questa per molti giudicata (probabilmente) strategica, sotto diversi punti di vista. Tutto sembra procedere al meglio fin quando arriva l’inaspettato, la doccia gelata che distrugge quanto di bello fatto.

Il 19 gennaio 1988 si vota per la successione a Caponnetto. Borsellino è convinto che l’incarico di Capo Istruttore andrà sicuramente a Falcone. Purtroppo però la sua agognata speranza si infrangerà in quel muro dei 24, all’interno dei piani alti. La maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura, con 14 voti a 10, in una concitata riunione notturna, gli preferirà Antonino Meli. Sarà scelto per una mera questione di anzianità ma non certo per le capacità tattiche e operative che avevano sempre caratterizzato il suo collega. Paolo ancor più di Giovanni (il diretto interessato) sentirà profondamente la sconfitta, il tradimento, l’assurdo volta faccia di un “palazzo dei veleni” che doveva essere loro sostenitore. Lo Stato che sembra rinnegare lo Stato. Un gioco di parole che in realtà nasconde un’incredibile vicenda che Borsellino non tollererà mai, fino alla sua morte. Dopo sette anni dagli arresti e sei dall’inizio del maxi processo, in un silenzio/cessate il fuoco surreale da parte degli “uomini d’onore”, all’ultimo grado di giudizio, la Suprema Corte presieduta da Arnaldo Valente confermerà per la maggior parte dei casi le condanne inflitte in precedenza da Alfonsouomini-della-scortaGiordano. Le “belve” fuori e dentro non gradiranno affatto e in pochissimo tempo scateneranno l’inferno contro tutto e tutti. E’ il 1992, l’anno della vendetta! Politici compiacenti e rei di aver promesso facile risoluzione in Cassazione vengono giustiziati, come accaduto a Salvo Lima e, coloro che si erano esposti in trincea, ormai abbandonati, lasciano la vita terrena in due attentati dinamitardi che sono passati alla storia. L’ultimo è quello del 19 luglio di 23 anni fa, alle ore 16:58 in Via d’Amelio, ove morirono oltre al magistrato 5 agenti della sua scorta. Dopo quattro tronconi processuali durati vent’anni (il Borsellino I, II, III e IV) gli esecutori materiali (lista troppo affollata) sembrano essere stati individuati ma i mandanti, le vere menti di quel diabolico massacro, restano ancora avvolti dal solito e tipico “mistero italico”. Un drammatico boato proveniente dal cuore di Palermo che alza in cielo una nube nera colma di disperazione. Prima, durante e dopo quel pomeriggio insanguinato di mezza estate troppe le verità nascoste e una sola la parola che aleggia da anni. Otto lettere che di anno in anno lasciano non poca amarezza in bocca – o quantomeno – un forte imbarazzo: S I L E N Z I O!

PAOLO BORSELLINO: L’UOMO
“Almeno, l’opinione pubblica deve sapere e conoscere. Il pool deve morire davanti a tutti”. (P. Borsellino)

Potremmo elogiare all’infinito l’uomo, l’investigatore, il suo lavoro, il coraggio e la parte emotiva. Sarebbe un bel tributo ma non crediamo sia essenziale poiché tutti sanno benissimo quanto sia stato importante il contributo di Paolo Borsellino per la lotta a Cosa nostra e con quale eroismo ha sempre combattuto una guerra talvolta impari. Vorremmo ricordarlo in un altro modo, quello che forse avrebbe preferito lui e che rende meglio l’idea su chi veramente è stato questo Signore e da quali inquietanti scenari era contornato il suo amato pool.

Dalle parole della moglie: “Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere.

Dal suo ultimo discorso del 25 giugno ‘92, denominato “i giorni di giuda”, in ricordo nostalgico dell’amico Giovanni Falcone:

“Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. […] …non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima.

[…] Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

[…] …per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.

[…] Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare…

[…] “ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza Ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura”.

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MAI DIMENTICARE COSA DISSE AI CRONISTI ANTONINO CAPONNETTO, ACCORSO A VIA D’AMELIO POCO DOPO LA TRAGEDIA. LE SUE ULTIME PAROLE, CON VOCE SPEZZATA DALLA COMMOZIONE, ANCORA RISUONANO ALTE E SIGNIFICATIVE, OGGI PIÙ CHE MAI: “…E’ FINITO TUTTO!!!”  

Mirko Crocoli