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di Giuseppe Lertora  I media si danno un gran daffare sulla questione del fondamentalismo islamico; i talk-show quotidiani sembrano non avere altri argomenti che parlare di cronaca nera e di ISIS con opinionisti dell’ultima ora, profeti di sventure, e di fosche previsioni sulle conseguenze a casa nostra, alimentando – nei fatti concreti – le paure che palesemente loro mostrano per primi, con pareri ripetuti a pappagallo: tutti esperti del bar sport che, da mister della nazionale, ora sono diventati esperti di strategia e di geopolitica. C’è chi arriva perfino a tirare in ballo equazioni, funzioni di secondo grado e diseguaglianze, con nessi balzani fra terrorismo, religione e clima, magari dimenticandosi dell’analisi-statistica che, anche in questo caso, potrebbe essere scientificamente di aiuto per capire almeno “quantisticamente” le cause del fenomeno terroristico islamico.  Ognuno ha la giusta ricetta secondo la propria chiave di lettura del fenomeno; le cause sono talmente variegate che tutti hanno ragioni parziali, variando dall’estremismo e fanatismo religioso, alla generica globalizzazione, alle disuguaglianze e marginalizzazioni sociali, e per ultimo perfino al cambiamento climatico, ma molti sembrano concordare sul fatto che le origini risiedono nella mancanza di istruzione, o ignoranza che dir si vuole, e nella povertà di questi terroristi (richiamata anche dal Papa nel suo viaggio africano). Un’attenta analisi, con dati alla mano, degli attacchi condotti negli ultimi 18-20 anni da terroristi estremisti che vanno dagli attentatori palestinesi, a quelli di Hamas, inclusi ovviamente quelli di Al-Qaeda, evidenzia che i terroristi islamici non appartengono agli strati più poveri della società, ma sono fra i più istruiti e non certo fra i meno abbienti (basti ricordare lo stesso Bin Laden, Mohammed Atta, autore delle stragi alle Torri Gemelle, ecc.. che erano ricchi e istruiti nelle scuole occidentali…) .
Se è vero che le disuguaglianze politiche e sociali possono costituire una molla alla ribellione, e la radicalizzazione religiosa può fare da innesco all’azione folle col martirio, è anche vero che istruzione e prestigio economico rendono chiunque più sensibile ai problemi sociali, mentre i più poveri e i meno istruiti hanno problemi più pressanti cui pensare per sbarcare il lunario piuttosto che infervorarsi per una causa politica o anche religiosa. Nel magma della galassia terroristica si rinvengono, comunque, parecchi poveracci e ignoranti; una manovalanza agli ordini di pupari certamente assai più scaltri e con disegni a loro ignoti e inconfessati. L’essere umano, secondo il Maslow, deve soddisfare i bisogni primari del vivere, sfamarsi, avere un tetto, istruirsi, mettere su famiglia, ecc.; se in condizione di povertà non si può permettere il lusso di pensare troppo alla politica, ai divertimenti, ai diversivi in genere, e neppure dedicarsi alla religione: prima la pancia, poi casomai il resto.  L’approccio per capire e contrastare il terrorismo jihadista non può comunque essere semplicista, ma va analizzato, relativizzato e contestualizzato in quanto poliedrico e con sfaccettature di vario genere, sia nelle origini che negli effetti;  sicuramente oggi – vista la sua follia stragista –  va combattuto ferocemente e a prescindere da sofismi, fino alla sua distruzione – come giustamente sostiene Hollande, colpito nella sua capitale –  nei propri territori occupati in Iraq e Siria.  All’interno degli Stati Occidentali, pertanto, vanno ponderate le misure da adottare – possibilmente comuni e condivise – per combattere le cellule Daesh, onde ripristinare condizioni di sicurezza e di serenità sociali in relazione anche alle diverse realtà esistenti negli Stati membri.  Senza schizofrenie, sia verso l’esterno che all’interno, procedendo con la prudenza necessaria ma con la massima determinazione e con grande onestà civile e intellettuale, considerando da un lato che gli effetti conseguenti ad una guerra possono essere disastrosi quanto la guerra stessa, ma che se di guerra si tratta, come nel nostro caso,  va condotta con grande fermezza e convinzione, altrimenti è già persa in partenza. In tale contesto, le attuali posizioni nostrane sembrano improntate, invece, ad eccessiva prudenza, che sconfina facilmente in palese indecisione, anche se la situazione è tutt’altro che facile, fluida e piena di incognite; al di là delle dichiarazioni roboanti della totale condivisione del momento cruciale con i nostri cugini colpiti proditoriamente, noi ipotizziamo delle mezze scelte effettive. Cioè scelte per nulla “convincenti e maturate”, innescate unicamente dalla straordinarietà di quei fatti nefasti; scelte, o meglio non scelte concrete, che ci vedono defilati dall’impegno e dal coinvolgimento diretto in Siria, poiché l’ISIS – ora si dice! –  anche in Libia potrebbe riservarci sgradevoli sorprese, ma anche tenendo di conto dell’attuale impegno dei nostri soldati nei diversi teatri di crisi. Inoltre, viene posta una precisa riserva di intervento che presuppone l’aprioristica definizione della “strategia del dopo” (guerra) da parte della comunità internazionale: giusto; ma chi può dirlo ora?
L’ambiguità continua a primeggiare adducendo a non ben definiti ulteriori “diversi percorsi politici” per le decisioni di partecipare o meno alla guerra dichiarata. Forse potrebbe, perciò, aiutare anche una riflessione sulle nostre capacità militari nel Mediterraneo; che richiederebbe una logica rivisitazione del recente Libro Bianco in modo da evidenziare più correttamente le minacce nel nostro bacino e l’importanza da ri-attribuire al tema della Sicurezza nel Mar Mediterraneo, nonché alla dimensione marittima del nostro Paese. E, visto che, anche i francesi impiegano la portaerei De Gaulle, e gli inglesi la base cipriota di Akrotiri (solo perché non hanno ora più portaerei!) per il contrasto dell’ISIS, rimettere nella giusta prospettiva le  potenzialità della nostra Marina che da sempre, ed ora più che mai, costituisce uno strumento essenziale al servizio della politica di difesa italiana sul mare, e non solo. Quindi, in sostanza, per ora, nonostante le varie dichiarazioni di principio, fra in-comprensibili giri di valzer, segniamo il passo nei confronti della reale partecipazione alla coalizione per battere il Daesh in Siria; nessuno sembra voler affrontare la realtà che, volenti o nolenti, ci vede interessati se non coinvolti da una guerra jihadista dichiarata; forse dobbiamo aspettare di sentire l’odore acre dell’esplosivo nelle nostre città? 
Che piaccia o meno, e fuori da ogni ipocrisia o convenienza politica del momento, non ci si può nascondere dietro un dito: c’è una guerra in atto dichiarata dallo Stato islamico e, più in generale, dal terrorismo di matrice islamica che ha individuato ed occupato, per i motivi già detti, nelle terre irachene-siriane, grandi possedimenti seminando dapprima il terrore locale anche contro i regimi arabi e musulmani-sciiti dell’area di interesse, e poi espandendo le proprie ambizioni nelle regioni limitrofe per dare attuazione al Califfato. Quindi, ha già lanciato, da lì, utilizzando le cellule “embedded” nei paesi occidentali, l’offensiva kamikaze verso il resto del mondo, facendo stragi fra inermi con estrema ferocia, senza dialogare e senza compromessi, e sottomettendo ciecamente alla propria volontà chi non sposa la sua scellerata causa, e comunque chi è diverso per cultura e religione.
Nonostante le esortazioni di Hollande che, povero, sta facendo il giro delle sette chiese per costituire una “’grande coalizione anti-ISIS”, tutti si dicono d’accordo, condannano giustamente gli attacchi parigini, pontificando sulla solidarietà, ma in realtà nicchiano, adducendo a meta-strategie future: l’unico che sembra avere le idee più che chiare è lo Zar Putin che sta convogliando le sue Forze, soprattutto navali nel Mediterraneo, e puntando tutto, o quasi, sul coinvolgimento iraniano, quale forza d’ariete terrestre anti-Daesh.
Infatti, se da un lato c’è bisogno di un coinvolgimento globale, compresi i Paesi musulmani che condividono i valori fondanti della nostra civile umanità, dall’altro bisogna evitare cesure, isolando piuttosto quegli Stati e quei movimenti che li supportano idealmente ed economicamente. Si procede, invece, in ordine sparso; noi continuiamo a sostenere che c’è bisogno di una strategia a lungo termine e che siamo già impegnati in diversi teatri, per cui in Siria non si va; la Spagna tace insieme a quasi tutti gli altri Paesi europei, dovendo elaborare la figura barbina del Bernardino Leon, in Libia; la Merkel, dopo la fuga forzosa dallo stadio di Hannover, e dopo un lungo silenzio e ripetuti solleciti, ha promesso di inviare qualche truppa in Mali, sciando sulla sua partecipazione diretta alla coalizione anti-ISIS in Siria, sia perché deve fare i conti con i pacifisti del suo governo, sia perché deve tener conto dei quasi 5 milioni di Turchi residenti in Germania: l’UE si mostra ancora una volta in preda ad una assenza di politica estera comune, ed anche di risposte coerenti di fronte a gravi problemi di Sicurezza e Difesa comunitaria.
La NATO sta a guardare e sembra avere un encefalogramma piatto, alla stregua della UE; ma anche Obama non sa che pesci prendere ed il suo impegno sembra limitarsi alla sola guerra aerea, con un rateo di missioni quasi ridicolo – 6 missioni aeree al giorno vs le oltre 1200 che erano volate nella guerra in Iraq – ben sapendo che con il solo strumento aereo non si vincono le guerre, mentre è ovvio che bisogna scendere sul terreno, perché è lì che Daesh è forte e presente. La strategia dello “stay behind” e del “containment” non paga; non c’è leadership, non esiste più neppure quel dominio statunitense che, incredibilmente, ha lasciato il campo a Putin sia nelle mosse geopolitiche che strategiche. E,  purtroppo, tale situazione ondivaga e di “no-strategy” continuerà fino all’inizio del 2017, finché non sarà eletto un nuovo Presidente USA che dovrà schierarsi più chiaramente nel conflitto in Medio Oriente. Limitarsi a far piovere qualche bomba dal cielo fa sembrare, in una guerra già di per se’ asimmetrica, una sorta di confronto “vigliacco” contro il nemico che ne è sprovvisto e non si guarda negli occhi; non solo, a fronte dei rischi “collaterali” di colpire popolazioni civili, esiste in concreto il rischio che ciò rafforzi ulteriormente l’adesione e la coesione delle diverse etnie, tribù e religioni, nell’unirsi contro le forze anti-Daesh, come già occorso in altri teatri.
Anche quel coordinamento tanto sbandierato, derivato dai numerosi incontri fra Russia ed USA, sembra funzionare davvero poco e male
, e non sono poche le interferenze fra le missioni aeree delle due parti, e delle stesse con la Turchia che ha propri obiettivi, spesso in contrasto con gli assetti anti-ISIS. A complicare notevolmente la situazione ci sono le gelosie turche del proprio spazio aereo, atteso che le diverse missioni aeree “tangenziano” i suoi confini per il loro assolvimento; il recente abbattimento del SU-24 russo ne è la riprova, anche se obiettivamente, vista l’esiguità temporale e geografica di tale “invasione” dello spazio aereo turco, poteva e doveva essere risolto con le procedure previste e le regole di ingaggio condivise, intercettando il velivolo e scortandolo fuori dallo spazio turco. Tanto più che volando a 18000 piedi la missione non appariva pericolosa o scarsamente visibile ai radar di terra: se avesse voluto fare un’infiltrazione di attacco sicuramente avrebbe tenuto una quota “low-low altitude”, idonea alla penetrazione della loro difesa aerea, probabilmente senza essere visto.
L’incidente appare più un pretesto, ed anche la reattività del premier turco Davutoglu nell’ordinare di abbattere il Sukhoi sembra troppo tempestiva se non premeditata; Putin è una spina nel fianco perché sta combattendo ISIS, ma è anche di supporto ad Assad  contro i ribelli, e questo non va molto a genio ad Erdogan che, invece, vorrebbe annientare il nemico siriano ed avere mano libera contro i curdi.  Di fronte a questa grave crisi che si riflette nelle forze presenti in area, la NATO continua a fare il pesce in barile, Obama pure, pur riconoscendo che la situazione è talmente intricata che tali comportamenti appaiono comprensibili anche se solo parzialmente giustificati; l’unico ad avere le idee chiare è sempre Putin che, dopo aver dichiarato di “essere stato pugnalato alle spalle”, ha promesso serie conseguenze nei confronti di Ankara: già ha ordinato ai suoi 4 milioni di turisti di non recarsi più in Turchia, ha interrotto tutte le importazioni di alimentari e materie prime; sicuramente  chiuderà  le forniture di gas (per oltre il 50% la Turchia si rifornisce da Gazprom…) ed ha già posto ipoteche nei contratti sul nucleare  e sul gasdotto Turkish Stream che avrebbe dovuto attraversare il suolo turco: il business troncato è ingente ed è stimato in circa 45 miliardi di euro. Per il bene di tutti, ma soprattutto della stessa Turchia, e per devolvere le energie alla lotta contro Daesh, sarebbe auspicabile che Erdogan la smettesse di fare il doppio gioco, senza creare ad arte incidenti pericolosi; sarebbe molto meglio se, intanto, facesse rigorosi controlli alle sue frontiere con la Siria, e non facilitasse il transito di armi e dei famigerati “foreign fighters” che sistematicamente vanno ad unirsi a ISIS: forse attende innanzitutto che la UE gli elargisca quei 3 miliardi di euro che chiede, surrettiziamente, per la gestione dei profughi provenienti dalla Siria.
Quali, in sostanza, le azioni per battere dunque Daesh?
Sicuramente è necessario un “comprehensive approach”, sul piano militare, diplomatico, economico e sociale
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Sul piano militare, nonostante che la coalizione anti-Daesh appaia finora assai sfrangiata nelle volontà politiche dei singoli Stati, essa costituisce la prima condizione necessaria per rispondere alla guerra dichiarata da ISIS, e quindi va fatto ogni sforzo “politico” per coinvolgere la maggior parte delle Nazioni, non solo occidentali, ma anche quelle arabe e musulmane (Egitto, Giordania e Iran, ma senza trascurare gli altri…): non basterà la guerra dal cielo, ma ci vorranno “gli scarponi sul terreno”. La guerra va combattuta anche sul piano dell’Intelligence e cibernetico, ponendo in essere sia misure di controllo di Internet, sia attuando azioni di cyber-war e/o di cyber-security, nell’ottica di colpire i loro centri informatici nevralgici, e inibire le comunicazioni sui vari siti web, o deep-web, o altri canali usati per le loro comunicazioni verso i propri satelliti. Sul fronte diplomatico bisognerà smussare le spigolosità esistenti, soprattutto fra la Russia e la Turchia, con l’intervento mediatore degli Stati Uniti, anche per il futuro della Siria e di Assad; andranno coinvolti i Paesi di buona volontà che credono nello Stato di diritto, nel maggior numero possibile, cercando di stroncare – almeno  sul piano diplomatico – quegli stati che supportano o sono conniventi con Daesh.
Sotto il profilo economico devono essere tagliate tutte le possibili fonti di sussistenza e sopravvivenza di quei signori; devono costituire quindi obiettivi primari i depositi petroliferi e i trasporti che riciclano l’oro nero soprattutto verso la Turchia, ma anche il traffico di droga e di armi con politiche di ampio respiro e assetti di “law enforcement” che i governi debbono convintamente porre in atto, così come vanno colpiti i finanziatori singoli, le donazioni, e quant’altro, anche attraverso il congelamento delle finanze di tali supporter, con accordi bancari internazionali.
Infine sul piano sociale e informativo, si dovrà “trasferire” al popolo interessato ed occupato da ISIS, che il futuro, dopo che il cancro sarà estirpato, sarà migliore con più libertà, servizi e benessere; bisogna altresì che sia prefigurato un End-State sociale e democratico, coerente con l’autodeterminazione popolare, prevedendo una fase di riconciliazione fra le diverse fazioni ed etnie, con l’assistenza dei Paesi occidentali, o meglio dell’ONU, per periodi di medio-lungo termine, finché la neo-governance non si sia sufficientemente assestata. Perciò sarà indispensabile manifestare la precisa volontà politica di sconfiggere Daesh nei diversi aspetti, con una collaborazione fattiva e determinata fra i membri della coalizione, e con la consapevolezza di accollarsi gli oneri conseguenti di lungo periodo.
Nell’ambito dei vari approcci, dal militare a quello economico, ci si dovrà confrontare con un nuovo partner significativo ed imprevedibile, sulla scena d’azione: l’Iran; con il quale, prima gli USA  con l’accordo nucleare, e poi, con assai maggiore efficacia si è accordato Putin, e pare da ultimo anche Hollande. L’Iran  ha tutto l’interesse a salvaguardare la Siria nella sfera sciita; avrà anche tutto l’interesse per fornire, come sembra, la massa di manovra terrestre in grado di sconfiggere militarmente ISIS, e con esso i sunniti. A fronte delle ambizioni religiose e geostrategiche di quel popolo, nei vari accordi e steps diplomatici successivi bisogna solo stare accorti che non si cada dalla padella nella brace, perché c’è il rischio strategico che al posto dell’ISIS che verrà sconfitto, lo si vada a sostituire con un analogo Stato storicamente produttore di terrorismo che gli occidentali  aiuteranno a creare: “l’Ayatollah-land”; una mega-nazione che si estende dai confini afgani, attraverso gli Emirati, alla Siria, dal Mare Arabico fino al Mediterraneo, sotto l’egida religiosa sciita che, fino a prova contraria, produce tanti terroristi e kamikaze almeno quanto i regimi sunniti. Una maggiore saggezza da tutte le parti, un più efficace coordinamento e meno stato di conflitto all’interno dei paesi della auspicata coalizione, potrebbero costituire dei giusti antidoti per combattere, coesi e con efficacia, l’ISIS: soltanto così potrebbe essere annichilito il Califfato e la correlata barbarie, e forse, ridate a quei Paesi la dignità e la civiltà che meritano.
Per quanto ci riguarda, in conclusione, potremo anche credere che le farneticanti  e provocatorie news pubblicate periodicamente on-line da ISIS sul sito “Dabiq” da oltre un anno, che prefigurano «la conquista di Roma con la bandiera nera sul Vaticano», facciano parte di una strategia fasulla e priva di fondamento, ma non possiamo sostenere che il nostro Paese sia indenne dalle infiltrazioni pericolose dei jidahisti viste le sgradevoli scoperte di cospicue cellule di affiliati al terrorismo fatte in Sardegna, fino a quelle di Merano, per tacere di quelli che si possono nascondere fra i numerosi migranti: l’Italia pertanto non è meno esposta di altre Nazioni dell’Occidente, e allora perché continuiamo a tergiversare e restiamo inermi ad aspettare il colpo?
Oltre alla guerra esterna contro Daesh nei suoi territori, esiste un’altra guerra “interna” contro le cellule jidaiste ed i cosiddetti lupi solitari sparsi un po’ ovunque nelle nostre Nazioni; è una guerra diversa, meno visibile e più pericolosa che deve essere combattuta con mezzi e strumenti raffinati, da quelli militari a quelli dell’Intelligence, alla cyber-security, e via dicendo.
All’interno dei diversi Stati europei molte sono le azioni e le modifiche da fare in modo puntuale per monitorare e contrastare i proseliti dello Stato Islamico e i folli martiri che aspirano al Paradiso e a tre mogli celesti disponibili, ma – come sostiene l’analisi citata – non bisogna prendere lucciole per lanterne ed investire nella loro istruzione-cultura sociale, e neppure in aiuti economici nei loro confronti. Ma per questo, è necessario rinviare ad uno specifico successivo approfondimento.
(to be continued….)