Il 2 febbraio di 26 anni fa Enrico De Pedis, capo della Banda della Magliana, veniva intercettato e ucciso nel cuore della capitale.

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E’ inutile continuare a prenderci in giro: quelle “batterie” della Magliana-Testaccio-Trastevere erano al soldo di alcuni uomini deviati della nostra intelligence, unitamente a qualche losco personaggio della vecchia classe politica. Il leader indiscusso del Clan romano era Enrico De Pedis, detto Renatino, soggetto ambiguo dagli intrecci poco chiari, amico e sodale dei colletti bianchi della capitale nonché feroce comandante della banda che conquistò Roma tra la fine degli anni Settanta e gran parte della decade Ottanta. Ce li hanno dipinti come quattro ragazzotti sanguinari che tra spaccio, estorsioni e violenze hanno tenuto in scacco alcune aree metropolitane della city. Ma in realtà, quel gruppo di “sbandati e disorganizzati”, in poco tempo, è divenuto un vero e proprio braccio armato comandato da un segmento sconosciuto dei soliti poteri forti, sotto l’egida del corrotto governo centrale. A sostenerlo non è solo la libera stampa ma anche gente del calibro di Giancarlo Capaldo, un distinto signore che lavora da anni nell’edificio C del palazzo di Giustizia, uno dei tre procuratori aggiunti, insomma, uno dei vertici della Procura più importante d’Italia. La banda di De Pedis nasce sulle ceneri di quella dei Marsigliesi, la famosa “3B”; Alberto Bergamelli, Jacques Berenguer e Maffeo Bellicini.
Renatino, coadiuvato da Franco Giuseppucci e Maurizio Abbatino, dopo un incontro fortuito, danno vita in poco tempo ad una potente banda, talmente protetta, rispettata e temuta che, nel secolo scorso fece la storia della nostra Penisola. Successivamente ebbero l’astuzia di allargare il cerchio e, con il placido bene stare di personaggi cosiddetti nell’ombra, allacciarono alacremente contatti con i più importanti esponenti delle “famiglie” mafiose del sud.
Mentre Danilo Abbruciati, seguace dei Marsigliesi, portò il culto della criminalità in terra promessa, Domenico Balducci detto “Memmo” si conquistò la fiducia del siciliano Pippo Calò, il cassiere di Cosa Nostra (uomo chiave dei Corleonesi) e Nicolino Selis “il Sardo” dislocato a Ostia rappresentava il punto di contatto con la NCO (Nuova Camorra Organizzata) di Don Raffaele Cutolo, “O Professore” di Ottaviano. Fiumi di polvere bianca (Coca ed Eroina) invasero per oltre un decennio le strade del cuore della Nazione e miliardi di vecchie lire entrarono nelle casse del Clan. Ed è proprio il Dott. Capaldo, nel suo “Roma Mafiosa” che ci descrive con precisione la sottile linea di contatto tra la banda e la Cupola Siciliana di Riina e company:

(…) “Sul finire degli anni Settanta arrivò a Roma Pippo Calò, il numero tre della cupola di Cosa Nostra, dopo Riina e Provenzano. In quel periodo nella capitale la faceva da padrona la famosa e spietata Banda della Magliana”. (…)
“Il quadro a Roma muta con l’arrivo di grossi quantitativi di eroina dalla Sicilia, fino ad allora diffusa soprattutto nel milanese”. Ed è proprio in quel periodo che si costituisce il gruppo che prenderà poi il nome di Banda della Magliana”. (…)
”Calò, ricercato per tentato omicidio, decide di fare il latitante a Roma perché qui gode di forti complicità…..” (…)
“Nella capitale Calò è legato a Domenico Balducci detto «Memmo» dagli amici”. (…)
“Tramite Balducci, Calò entra in contatto con Danilo Abbruciati, boss della Magliana”.

Non uno sparuto grappolo di bulletti di quartiere ma un’organizzazione malavitosa tra le più influenti del Novecento che, tuttora, è fonte di dibattiti e interesse. Non si è trattato di ruberie o piccoli scippi ma di vicende talmente serie che hanno scosso l’opinione pubblica. Sequestro del Duca Grazioli; del ricchissimo gioielliere Gianni Bulgari; di Amedeo Ortolani (figlio del braccio destro di Licio Gelli) e di Alfredo Danesi, patron dell’omonimo caffè. E questo è solo l’inizio. I nomi di De Pedis, Abbatino e Giuseppucci sono stati associati anche ad efferatezze piuttosto rinomate che, ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni non hanno avuto alcuna giustizia. Assassinio del giornalista Mino Pecorelli, coinvolgimento nel sequestro Moro, sparizione di Emanuela Orlandi, decapitazione del luminare Aldo Semerari e – addirittura – strage nella stazione centrale di Bologna, trascurando gli innumerevoli cadaveri poco noti caduti nel bel mezzo di spietate faide interne.
La mente affine dell’intera operazione era il trasteverino De Pedis, ex compagno illustre di Sabrina Minardi, considerato l’anello di congiunzione tra la mala interna, le cosche del sud, il sistema politico locale, la borghesia e parte delle sezioni “coperte” dei secret service. Ci appare un po’ incredulo che in quella Roma di fine Settanta, blindata dalle Forze di Polizia durante il sequestro dello statista Moro e messa a ferro e fuoco dalle Brigate Rosse e dai neofascisti di Ordine Nuovo e NAR potessero scorrazzare indisturbati i “bravi ragazzi” di Enrico e Giuseppucci. Non c’era locale alla moda in cui non girasse roba che provenisse inevitabilmente da Napoli o Palermo e quindi piazzata sul mercato dalla famosa banda. Clamorosa poi la scoperta dell’arsenale negli uffici sotterranei del Ministero della Sanità così come eloquente la confessione del pentito Abbatino riguardo alla miriade di rapporti con l’apparato giudiziario e forense dell’antica città imperiale:

“Avevamo a disposizione quasi tutti gli avvocati di Roma, medici, dottori, perché no, anche qualche politico. C´è stato un periodo in cui entravamo con le macchine al servizio dello Stato, entravamo sotto al tribunale, scaricavamo pellicce, oggetti d´antiquariato, avevamo un contratto con un capo cancelliere che ci diceva che quei giudici erano corrotti… i processi prendevano la direzione che volevamo noi”.

Ci hanno fatto credere che la guerra con l’opposta fazione dei Proietti, soprannominati i Pesciaroli o l’antagonismo con i Toscani siano le cause primarie della fine di una delle organizzazioni di stampo criminale e mafioso più agguerrite degli anni d’oro, ma in realtà chi ha voluto la loro eliminazione – probabilmente – sono le stesse persone che in tempi non sospetti vollero quel lungo braccio armato per i consueti sporchi giochi di palazzo. Il 2 febbraio 1990, in zona Campo De’ Fiori, Enrico De Pedis, l’elegante Boss di Roma, cadde sotto i colpi di un killer in motocicletta. Con l’ultimo omicidio illustre per mano (così dicono) di esponenti malavitosi si conclude il decennio della banda della Magliana. Tanto si è parlato sulle complicità di questi signori (con Beretta in mano) riguardo a molte questioni legate al periodo dello stragismo italiano, così come ancora oggi si cercano i loro protettori istituzionali, quindi, i veri mandanti. La cosa certa è che quei “disgraziati” nacquero in povertà ma divennero ben presto i milionari capi indiscussi della città di Roma. Per volere di chi? La sepoltura di Renatino presso la chiesa di Sant’Apollinare lascia ancora aperti non pochi dubbi sull’intera vicenda.

Mirko Crocoli