eco_giovaneConobbi Umberto Eco proprio nel ’68, quando lo intervistai per “Il Lavoro” di Genova, allora un po’ l’organo ufficioso del partito socialista. Era un giovane docente occhialuto e senza barba, consulente alla Rai e alla Bompiani, ed era lì per un ciclo di conferenze da tenere nei vari teatri italiani. Mi capitò di riceverlo e far gli onori di casa per conto dello Stabile di Ivo Chiesa, dove collaboravo per le pubbliche relazioni. Eco era già noto al largo pubblico per la celebre “Fenomenologia di Mike Bongiorno” (Diario Minimo, 1963), di cui mi rivelò un delicato retroscena personale – non si diceva ancora gossip. Più che la persona, l’articolo analizzava il personaggio Bongiorno: simbolo televisivo di mediocrità perfetta e perciò popolarissimo, in quanto qualunque spettatore poteva identificarsi in lui senza alcuno sforzo critico. Il presentatore un po’ si offese, rivelando che Eco stesso faceva parte dei mitici esperti che preparavano le domande dei quiz. Ne scaturì tra i due una certa tensione. Pochi sanno che oggetto del contendere, in realtà, erano le grazie della giovane conduttrice Enza Sampò.

Dall’ incruento scontro il filosofo guadagnò una certa notorietà. Ma soprattutto la sua fortuna negli anni Sessanta gli derivò dall’ aver introdotto anche in Italia lo studio scientifico della comunicazioni di massa e in particolare del fumetto. In America studiosi come Marshall McLuhan avevano da tempo teorizzato il cosidetto Villaggio Globale, quell’invadente circuito che – tra radio, stampa e Tivù – già collegava tutti con tutti, benché Internet ancora non esistesse. Erano i tempi di Charlie Brown e della rivista Linus, e il filosofo Eco applicava a quegli eroi di carta le categorie di Hegel e Kant. L’effetto esilarante scaturiva dall’uso di parametri molto seri applicati a una materia considerata del tutto frivola. “L’uomo – osservò tra l’altro – è l’unico animale che ride.” Si discusse così dei meccanismi del riso, da Bergson ai giorni nostri: in proposito il mio eruditissimo interlucotore esaltò le dirompenti potenzialità dell’umorismo, concetto su cui avrebbe poi fondato l’occulto intrigo del suo massimo capolavoro, “Il nome della Rosa”(1980).

L’intervista uscì, e ad Eco parve brillante. Ne nacque un sodalizio complice ma breve, per i motivi che dirò. Ci frequentammo spesso, tra biblioteche, circoli vari e pizzerie. Da lui, con zelo di neofita, imparai a interpretare i significati culturali della comunicazione, e vagliarne cricamente i contenuti. Al di là dell’universalità intellettuale – i suoi intereressi andavano dalla linguistica all’estetica, dalla teologia all’antropologia culturale, fino alla medievalistica e alla pop art – questo studioso atipico e un po’ snob affascinava interlocutori e allievi per la confidenza che dava a tutti, su un piano di assoluta parità: la totale disponibilità umana, e quel sorriso con cui di tanto in tanto mordicchiava la pipa, senza stancarsi di spiegare. L’insegnamento, anzi, lo divertiva. Onniscenza gentile, distacco elegante, carisma di maestro. Si parlava di tutto, tranne che di Dio, dell’anima e dei misteri dell’essere: e già questo, per un filosofo, sembrava abbastanza singolare. Fu tra i pochi a leggere e capire l’illeggibile (e intraducibile) Ulisse di Joyce. Era tra l’altro spiritosissimo, capace di escogitare ingegnosi giochini letterari e scrivere la storia della filosofia in poche vignette e versi. Ecco, per esempio, un condensato in rima del materialismo storico e dialettico: “Stretta la foglia, larga la via,/ questa dialettica compie i suoi passi/ ed inguaiando la borghesia / ti forma un mondo privo di classi.” Icastico.

Una volta, un risentito compagno del PCI gli obiettò che lo strutturalismo non aveva nulla a che fare con il socialismo. Vero: proprio nulla. Pur appartenendo alla sinistra, Eco non tentò mai di adattare la filosofia marxista ai suoi specifici interessi, a differenza ad esempio del Sartre del maggio parigino, che pretese con palese forzatura di conciliare gli opposti, cioè esistenzialismo e materialismo storico. Né parve particolarmente interessato al concetto di lotta di classe, e a tutto quell’arsenale o residuato bellico di ideologie e vezzi, cui molti intellettuali amavano rifarsi continuamente in quegli anni, forse più per captatio benevolentiae che per intima convinzione.

Più che alla politica in sé, di cui certo detestava la seriosa enfasi comiziale, sembrava interessato al linguaggio, alle forme e allo stile della politica, sempre ricorrendo alla sua arma più brillante: ovvero un’ironia fredda, sottile quanto micidiale, che raramente scadeva in greve ostilità personale. Anche per questo ebbi un brutto dispiacere nel giugno del ’71, quando Eco si associò alla campagna contro il commissario Calabresi.

Dagli studi teologici, se non la fede, aveva mutuato la sottigliezza. Si dice fosse ateo. No: era laico e agnostico, convinto cioè che il mistero di Dio non si possa risolvere con strumenti umani. Ma scambiò un bellissimo carteggio con il Cardinal Martini, da cui si evince che nulla viene escluso a priori.

Ma torniamo ai miei rapporti con lui, e all’incidente che, certo per mia colpa, ne segnò la fine. Il movimento studentesco del ’68 e dei lunghi anni che seguirono, ripudiando in blocco istituti e valori della tradizione, aveva preso di mira soprattutto i docenti “baroni”, oltre a registi, artisti, scrittori e intellettuali in genere. Pochi reagirono, quasi tutti abbozzavano: mettersi contro i giovani sembrava impopolare. Altri ancora, come Alberto Moravia, si spinsero alla piaggeria. Eco, direi, si muoveva navigando a vista, con qualche precauzione. Nel gennaio ’69, nella mia casa di Genova, ebbi con lui una lunga conversazione. Il filosofo parlò della contestazione come di un “fenomeno a sfondo religioso tipo anabattisti”, infantile e senza basi politiche, “nato da un’esigenza nevrotica di scuotimento del corpo sociale.” Doppia eresia: contro l’atteggiamento ufficialmente conciliante dell’ intellighentia del tempo, ma soprattutto contro la scuola storicistica, dall’idealismo al marxismo stesso, che spiegava conflitti sociali ed elaborazioni culturali – movimenti e correnti di pensiero – come frutti maturi di un laborioso processo di sedimentazione.Tesi-antitesi-sintesi, si sa. Uno schema rigido, quasi una sacra struttura una e trina che comprende tutto, e come tale esclude dalla storia ogni fenomeno fortuito o estemporaneo. Il 26 gennaio l’intervista uscì in terza pagina: fu un piccolo scoop. Al Lavoro non giunsero smentite, ma da quel giorno il professor Umberto Eco mi tolse il saluto. Lo rividi a Torino nel 2010, al Salone del Libro, dove anch’io – si parva licet – presentavo un mio romanzo. Mi rivolse da lontano uno strano cenno, ma non saprei dire se fosse un saluto.

Gian Luca Caffarena