Il 18 maggio del 1988, si spegneva a Milano Enzo Tortora, vittima di un calvario giudiziario senza precedenti. Abbiamo chiesto a Francesca Scopelliti, la storica compagna del conduttore, che visse in prima persona il dramma del noto giornalista ligure, una riflessione su questa brutta storia italiana.

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“Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”. (Enzo Tortora ai giudici)

Che il buon Tortora sia stato assassinato moralmente e fisicamente è fuori dubbio. Da capire ora per volere di chi; di Barra, Pandico e gli altri criminali o di una malagiustizia che, dall’arresto fino al primo grado, lo ha materialmente distrutto? Lo chiediamo a Francesca Scopelliti, non una donna qualsiasi, non qui in veste di esponente di rilievo del partito Radicale, già segretario del Senato della Repubblica, vicepresidente della commissione speciale per l’infanzia, componente della commissione difesa ed eletta in Lombardia e Marche dal 1994 al 2001 a Palazzo Madama per i Radicali e successivamente per Forza Italia, ma da persona che ha vissuto in prima linea l’interva vicenda, essendo, in quei tragici momenti, la straordinaria compagna di Enzo Tortora.
Sig.ra Scopelliti, innanzitutto grazie infinitamente per la sua disponibilità. E’ un onore averla tra noi proprio mentre dedichiamo questo tributo al suo ex compagno. Una voce così diretta e sentita sicuramente ci può aiutare per comprendere l’intera questione, soprattutto quando si tratta di responsabilità. Per concludere ci aiuti a capire cosa accadde quella nottata di 33 anni fa, con qualche suo ricordo e con un’analisi personale che – sicuramente – in tutti questi anni si sarà sicuramente fatta. In questi giorni, in occasione proprio del 28° anno della morte di Enzo, crediamo che sia quanto mai opportuno e appropriato.

I magistrati napoletani che hanno inquisito Tortora sono stati arroganti e protervi ma anche sfortunati: perché non poteva capitare loro un uomo più innocente.
Un uomo che non aveva mai preso una multa o pagato una bolletta con ritardo, mancato di rispetto al vicino di casa o al vigile. Un uomo che aveva un grande rispetto delle istituzioni, che amava la fanfara dei bersaglieri e l’inno dei carabinieri, che si inorgogliva dell’operato dei soldati nelle missioni di pace, che per una insaziabile curiosità si era formato una cultura come pochi e non amava essere incluso nello star system dello spettacolo. Lui si sentiva semplicemente un giornalista della carta stampata e televisivo.
Un giornalista che non ha mai rinunciato a dire ciò che pensava anche a costo di perdere il posto di lavoro: chi al suo posto avrebbe accusato la Rai di essere un baraccone politico, un jumbo guidato da un gruppo di boy scout sapendo che la Rai lo avrebbe licenziato? E allora sorge naturale una domanda: può un uomo così libero mettersi al servizio di un capobanda, anche se si chiama Raffaele Cutolo?
La sua vita è sempre stata un esempio di qualità, di eccellenza: è stato un giornalista televisivo capace di sperimentare nuove formule che ancora adesso fanno la fortuna di tante trasmissioni. Da imputato, seppur innocente, ha vissuto con dignità (dolorosa certo) la sua condizione di detenuto trasformando il suo caso giudiziario in un caso più ampio che riguardava tutto il sistema Italia facendosi portavoce della battaglia per la giustizia giusta. Da parlamentare, dopo una “preannunciata” condanna a 10 anni, si è dimesso per tornare in galera e consegnarsi ai suoi giudici da libero cittadino: chi lo avrebbe fatto?
Ecco questo è Enzo Tortora: un esempio da ricordare e da far conoscere ai giovani ancor più oggi quando è sempre più difficile trovare persone dalla vita esemplare da prendere come parametro per i nostri figli.
Ad accusare Tortora le menzogne di 17 farabutti e il libero convincimento dei magistrati napoletani Lucio Di Pietro e Felice Di Persia.
Una montagna di bugie che tiene Enzo in galera (tra Regina Coeli e Bergamo) per sette mesi e altrettanti agli arresti domiciliari in via dei Piatti a Milano: non uno straccio di prova, non un riscontro, non un’indagine alla ricerca della verità, non una intercettazione, ma solo menzogne, calunnie, false accuse precostituite e propagandate da giornalisti complici e asserviti alla procura. Perché? Perché Tortora doveva essere colpevole. Colpevole di essere innocente, ma colpevole.
Il 17 settembre del 1985 Luigi Sansone, presidente della decima sezione del tribunale di Napoli, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Diego Marmo, condanna Enzo a 10 anni di galera: una sentenza che vede alcuni giornalisti (qualcuno è costretto a tagliarsi i baffi per aver perso una scommessa!) brindare e festeggiare.
In Appello la sentenza viene ribaltata, assoluzione con formula piena: Michele Morello, giudice a latere del processo in una intervista disse:
“Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico: partimmo dalla prima dichiarazione fino all’ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell’altro, che stava assieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri, facemmo circa un centinaio di accertamenti: di alcuni non si trovarono riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell’imputato”. La sentenza di assoluzione fu confermata poi in Cassazione, ma il danno era fatto e il male aveva già preso il corpo di Enzo.
Quei signori che lo hanno accusato e condannato, innocente, hanno fatto carriera. Enzo è morto. La causa è stato quel male che lo aveva colpito, come un proiettile, con l’avviso di garanzia e la galera. Un brutto male che ha voluto dominare per assolvere a impegni importanti: ottenere il pieno riconoscimento della sua innocenza e uscire a testa alta da quella vergognosa inchiesta napoletana, portare nelle sedi istituzionali la denuncia della carcerazione preventiva, lo scandalo delle carceri, ritornare in Rai. Doveva soprattutto portare a termine la campagna per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati: un referendum vinto nel 1987 con una stragrande maggioranza ma tradito poi da una legge inadeguata quanto inapplicata. Tradimento che Enzo non ha vissuto: il 18 maggio 1988 è arrivato prima.

Mirko Crocoli