Le riforme alla Costituzione sono necessarie per la crescita?

economicaL’Italia, anche a prescindere dal Brexit, è perennemente in una sorta di crisi da cui sembra non poter o voler uscire; la crescita dichiarata è dello zero virgola centesimi (come faranno a definire quei decimali, non è dato capire…); le istituzioni finanziarie, prime fra tutte le banche fanno acqua da tutte le parti – quasi come le barche dei migranti – nonostante l’approccio ottimistico dei nostri governanti spesso in contrasto con la realtà vissuta dai cittadini disorientati. In effetti la percezione della gente è che sia la crescita economica e sociale, nonché la stabilità finanziaria siano sempre più evanescenti; anche l’affidabilità e la fiducia interna ed esterna del sistema Italia continuano a subire contraccolpi, giorno dopo giorno. Ma allora di quale crescita e sviluppo economico stiamo parlando? E quali sono i fattori pertinenti, secondo un comune cittadino, da porre in risalto per tentare di migliorare la nostra non favorevole e sgradevole situazione in cui ci troviamo? La crescita sarebbe un’iniezione positiva sia sul piano materiale che psicologico e servirebbe per darci “lo start” per ripartire, e soprattutto per aggredire quell’enorme debito pubblico che continua, invece, a crescere. E’ quindi essenziale avviare lo sviluppo dell’economia e della società per erodere le quote di disoccupazione che creano sofferenze generalizzate alle famiglie italiane, togliendo prospettive al futuro delle giovani generazioni: ci vuole tanto entusiasmo ed una forte spinta psicologica e morale, unici veri ingredienti che da sempre hanno risollevato i popoli dalle crisi, qualunque fossero. Non si tratta quindi di essere dei grandi soloni nel campo dell’economia (non se ne scorgono all’orizzonte, ed anche i vari Draghi sembrano prigionieri di un sistema, sperduti nelle brume nibelunghe…), e neppure degli Andreoli, cioè grandi esperti ed interpreti della moderna psicanalisi popolare, per capire e risolvere  i guai dei risparmiatori terrorizzati di perdere i guadagni sudati di una vita, fra il timore di un default bancario, il famigerato bail-in, e lo spread che continua ad essere uno spauracchio per tutti; qui non ci vogliono litanie politiche (ne abbiamo a iosa ad ogni TG e talk-show…) per convincerci che il sistema italiano bancario è solido mentre assistiamo a continue bancarotte, né sono più sopportabili le promesse messianiche che modificando la Costituzione ed il sistema elettorale, questo paese rinasce! Ma che ci azzecca? Evitiamo almeno di prenderci in giro e cerchiamo di capire i fondamentali della crescita, dello sviluppo e i fattori che, almeno da noi, li limitano quando non li ostacolano.

Della crescita economica fino allo sviluppo sostenibile…
La crescita del sistema economico è funzione di una maggiore disponibilità di risorse umane e di quelle naturali, o di una maggiore capacità del loro utilizzo che determina un aumento della produttività, mediante l’uso dell’innovazione tecnologica e del progresso tecnico. In effetti la crescita del prodotto nazionale è la base dello sviluppo, e si misura con l’aumento nel tempo del reddito pro-capite reale; essa è un elemento essenziale dello sviluppo e comporta molti benefici, ma anche costi che possono essere decisamente pesanti man mano che le risorse naturali si esauriscono, specialmente ove non si consideri l’inquinamento ambientale. La crescita deve costituire l’elemento portante di uno sviluppo economico sostenibile, cioè in grado di soddisfare le esigenze delle generazioni attuali e di quelle future. Ma cosa influenza l’efficienza produttiva nei vari paesi? I diversi livelli di produttività sono strettamente connessi alla presenza di istituzioni e leggi che regolano il comportamento degli individui, verificandone la correttezza e la legittimità, ed applicandole con equità attraverso un sistema giuridico che – e qui è il punto- deve essere efficiente, giusto ed efficace. Una società pervasa da evasione fiscale e da una atavica corruzione, ma anche caratterizzata da reati di vario genere che la giustizia non riesce a sanzionare, ha enormi difficoltà a crescere, a svilupparsi. Seconda in ordine cronologico, ma non per importanza, è la qualità delle Istituzioni che è un determinante fondamentale della performance del sistema economico; dove esiste poca burocrazia, fiducia nel sistema politico e sono adeguatamente tutelati i diritti di proprietà, gli individui sono più incentivati a realizzare gli investimenti, a fare impresa che, insieme, favoriscono la crescita economica. In ogni caso la crescita è subordinata alla presenza di conoscenza tecnologica che, se applicata con intelligenza e capacità organizzative, può comportare rendimenti progressivamente crescenti. Altri fattori importanti si rinvengono nella qualità del lavoro, nelle capacità e professionalità dei singoli, e nelle conoscenze in loro possesso: in altri termini nel capitale delle risorse umane.  La produttività dipende direttamente dal grado di sviluppo tecnologico, dalla quantità dei beni capitali disponibili, da un sistema bancario efficiente e onesto, dalla qualità e dai costi della manodopera, e dall’efficacia con cui le risorse vengono allocate e gestite. Le cause per cui in alcuni settori si cresce poco o nulla (dall’agricoltura all’industria, all’edilizia…) è anche imputabile, fra l’altro, all’insufficiente qualità del capitale umano che prende sottogamba gli  strumenti più moderni della tecnologia, non dando la dovuta importanza al sistema educativo-formativo del personale, ma anche all’eccesso di regolamentazione e di burocrazia in quei settori ( se pensiamo alle norme europee sui cetrioli, banane, vongole e quote latte…) che finiscono per limitare la concorrenza interna ed esterna in quegli specifici settori di rilevante importanza per lo sviluppo. La mancanza di adeguate infrastrutture e di attrezzature che consentono di sfruttare al meglio le conoscenze tecnologiche allo stato dell’arte, completano il quadro delle cause principali della no-crescita. Se si accetta l’idea che la crescita è auspicabile e desiderata, occorre affrontare il problema della scelta delle politiche più indicate per stimolarla; un tasso di crescita ridotto è spesso conseguenza di una domanda insufficiente per cui occorre intervenire con provvedimenti di politica fiscale e monetaria in grado di incentivarla; la riduzione delle tasse fa aumentare gli investimenti ed i consumi; politiche tributarie adeguate devono stimolare il risparmio individuale e le iniziative imprenditoriali: tanto maggiore sarà l’investimento, tanto maggiore sarà lo sviluppo di un paese. Le banche dovrebbero ridurre drasticamente i tassi di interessi e la spesa pubblica dovrebbe privilegiare gli investimenti nel capitale umano e nella sua istruzione, ma anche nella costruzione di autostrade, nello sviluppo urbano e nella valorizzazione delle risorse naturali. Il concetto dello sviluppo sostenibile deve fare i conti soprattutto con l’ambiente poiché sottende anche a finalità sociali di giustizia retributiva e di equità intergenerazionale: deve cioè sussistere il pieno riconoscimento nello sviluppo di un paese che le generazioni future debbano avere le stesse opportunità di quelle attuali.

Fattori pertinenti del sistema italico…
Se è vero che il sistema giudiziario è il fattore più importante per la crescita e lo sviluppo di un paese, come è già stato ampiamente detto in altra sede, quello italiano fa acqua da tutte le parti, ed è il più fallimentare a livello mondiale, dietro pure al Gabon per lentezza ed inefficacia dei processi. Il motivo principale di tale inefficienza che crea sfiducia nella gente, trattata assai diversamente a seconda che può permettersi un buon avvocato o meno, non è l’autonomia e la relativa indipendenza dagli altri poteri, anzi; in teoria dovrebbe funzionare egregiamente proprio per la sua “imparzialità ed equità” sancita dalla Costituzione. Ciò che non funziona, ed è motivo della non crescita, sono le miriadi di leggi e leggine che i nostri “grandi legislatori e/o governanti –sic!” varano per controllare e controbattere i giudici e confondere, quando non anche per interessi di bottega, le procedure con cavilli che a dir poco lasciano esterrefatti e portano inevitabilmente alla prescrizione. Parlare di certezza della pena con tre gradi di processo, con una varietà di percorsi nella tipologia del processo che invece dovrebbe essere unico, con una carenza infrastrutturale e di organici ormai acquisita agli atti, con una disorganizzazione nell’intera magistratura condita con “correnti” e personalismi di vario genere, e via dicendo, crea le condizioni per una giustizia imbalsamata, burocratizzata e sclerotizzata che, anziché essere la funzione trainante per lo sviluppo, è una palla al piede. Oltre agli effetti s-fiduciari nei confronti della pubblica opinione e per gli investimenti degli impresari interni, si crea un circolo vizioso, non solo in termini di ricadute materiali ma anche psicologiche, per cui anche gli investitori esterni se ne guardano bene dall’intraprendere attività in Italia dove l’evasione fiscale, ormai una tradizione inveterata, insieme con la corruzione, investono ogni lavoro e riguardano ogni contratto o servizio che sia, con forme inusitate di contenzioso che dopo lustri finisce normalmente “a tarallucci e vino”. Addossare pertanto colpe alla Costituzione è fuorviante e falso, mentre è la mala-giustizia il principale motivo dei nostri guai e della nostra stagnazione, nonché del relativismo civico e sociale ormai radicato nella nostra perduta cultura italica. Tra i più importanti fattori di sviluppo negletti dalla nostra comunità, è necessario citare la tecnologia, mai effettivamente sfruttata dall’imprenditoria italiana, quale grande opportunità del cambiamento e strumento indispensabile per uscire dalla crisi e ripartire. Noi, in Italia, non siamo riusciti non solo a creare nuove tecnologie per la carenza negli investimenti nella ricerca scientifica, ma neppure a sfruttare quelle inventate e sviluppate da altri. Paradossalmente ogni italiano ha in media quasi 2 cellulari, vari Ipad, Tablet ed altri ammennicoli (sembra che l’Italia abbia il triste primato in Europa..) derivati dalla Information Technology ma prodotti esclusivamente da paesi stranieri; anche la stessa Internet ed i vari social sono ancora considerati dei gadget con cui giocare più che sfruttarne le potenzialità per lavorare e fare nuove imprese: la tecnologia digitale resta una sconosciuta da parte della nostra imprenditoria ancora legata al “piccolo è  bello “, al manifatturiero, all’artigianale e spesso al dilettantesco senza apporto per il terziario ed alle nuove start-up. Anche il settore della pubblica amministrazione è rimasto “alle aste” in termini di digitalizzazione; basta andare a pagare il bollo dell’auto ad un centro ACI per sentirsi dire che le carte di credito non valgono e che bisogna pagare in contanti: eravamo convinti che, stante gli annunci governativi, anche per combattere “il nero”, avremo dovuto usare sistemi di pagamento tracciabili! Forse viviamo in una realtà virtuale o nel teatrino dell’assurdo? Solo il 5% delle aziende italiane vende on-line contro il 25-30% degli inglesi, francesi e tedeschi; l’Italia è davvero poco digitalizzata, basti pensare che ci si colloca al 25 esimo posto nell’uso e nella gestione del digitale, e quel poco che facciamo è di mediocre qualità. L’impatto di questo ritardo è enorme sia in termini di posti di lavoro direttamente persi nel mondo del web e delle telecomunicazioni, sia per le aziende che perdono la leva di Internet per crescere. Per le infrastrutture digitali all’avanguardia, rete a banda larga e punti wi-fi, abbiamo una pessima classifica sia nel loro uso che accesso: siamo oltre il 40 esimo posto su oltre 70 nazioni conteggiate. A parte le infrastrutture manca, al solito, il rispetto delle regole; se per contrastare i mariuoli ed il terrorismo avremo dovuto identificarci nell’uso pubblico di wi-fi ed impiegare per tutti i pagamenti carte di credito tracciabili, e via dicendo, viene da chiedersi come mai proprio le istituzioni sono le prime a pontificare, ma le ultime a rispettare quelle regole e quindi a controllare che vengano osservate. Ancora prima bisogna segnalare l’incapacità del nostro sistema educativo a formare le professionalità giuste per comprendere e quindi sviluppare le enormi potenzialità della Information & Technology; anche nell’insegnamento al cittadino medio dovrebbe essere fornita una infarinatura minima di informatica per rendergli la vita più agevole, ma siamo decisamente indietro. Dove è finita quella e-alfabetizzazione tanto sbandierata e mai realizzata, assai utile soprattutto alle classi più anziane che, invece, si sentono “stordite e neglette” da leggi e leggine, e relative prescrizioni, scritte in “digitalese”, apparentemente un linguaggio elitario e social-popolare, quanto astruso ed ostile. Le conseguenze della mancata digitalizzazione soprattutto nelle imprese si riverbera in molti settori e più in generale nel terziario, nei riguardi dei “servizi” che comprendono il commercio, il turismo, i trasporti, l’energia, l’ambiente, le banche, l’informazione, ecc, cioè, in buona sostanza quei settori che rappresentano i due terzi dell’economia mondiale. Infatti è stata proprio la crescita dei servizi a trascinare l’economia mondiale negli ultimi 30 anni ed a creare la maggioranza dei posti di lavoro nelle società più avanzate; esperti del settore stimano che in Italia l’incapacità di dotarsi di una moderna “economia dei servizi” costi almeno 4milioni di posti lavoro. Noi siamo una “Repubblica fondata sul lavoro”… che non c’è! Ma non illudiamoci che con qualche modifica estetica alla Costituzione, con il prossimo referendum, si guadagni in occupazione, o si inverta la tendenza verso la crescita: tanti annunci vani e senza senso, ma col pericolo di scrivere delle panzanate che resteranno per secoli. Il caso Italia è davvero singolare; tutti sostengono che la nostra risorsa più preziosa è il turismo e si parte certo da una posizione privilegiata, vuoi per le bellezze naturali, vuoi per il clima, tuttavia sembra che gli italiani non se ne rendano conto: siamo ciechi, sordi e presuntuosi. Come è possibile che nonostante quei privilegi naturali, in termini di competitività ed efficienza, siamo collocati al 30 esimo posto al mondo e siamo i più cari di tutti per i servizi che offriamo? All’estero si sono organizzati con grandi catene alberghiere mirando a servizi di qualità, assai migliori di quelli offerti nelle coste romagnole o liguri con costi pro-capite più abbordabili, per tacere dei trasporti considerati come un settore indipendente, e a sé stante rispetto al turismo. Questa frammentazione finisce col penalizzare non soltanto le città balneari, ma anche quelle appetibili in quanto centri culturali e città d’arte che osservano orari ed aperture tipiche italiche; l’unica cosa che sappiamo fare è scippare i turisti, mostrare le città piene di rifiuti, e trattarli in modo incivile: il disastro del turismo non è purtroppo un caso isolato in quanto situazioni più o meno simili si ritrovano in quasi tutti gli altri settori del terziario. Anche le imprese non crescono perché non hanno saputo sfruttare la rivoluzione digitale e quella dei servizi, e non sono state minimamente aiutate da un sistema bancario strozzino. Ad aggravare la situazione italica esiste tradizionalmente e resiste l’adagio che “piccolo è bello” tipico delle nostre imprese (così si evade meglio…); cioè siamo strapieni di piccole e micro imprese che di per sé sono sicuramente valide ma, a parte la devastante tassazione, non riescono ad offrire qualità e nuovi prodotti soprattutto in competizione all’estero dove si misurano con aggregazioni di imprese assai più forti e magari delocalizzate in mercati appetibili anche per il  basso impatto della manodopera. C’è bisogno di un cambio di marcia, di competenza e soprattutto di mentalità; le regole del lavoro, articolo 18 o meno, vanno radicalmente cambiate con una decisa conversione verso la flessibilità e la mobilità, privilegiando la formazione e la riqualificazione del personale, tenendo debito conto del digitale. Noi, Jobs act incluso, abbiamo regole giurassiche che scoraggiano l’ingresso dei giovani sempre più costretti da un precariato con pochi diritti e tutele, e con poche opportunità di crescita professionale e di sicurezza nel posto di lavoro. Insomma la mancata crescita non viene per caso, né è colpa della crisi, ma risiede nel non aver voluto cogliere la trasformazione tec-digitale e, invece, cullarsi nel piccolo e consueto piccolo cabotaggio confidando in un sistema arcaico vecchio di un secolo. Il resto, si fa per dire, lo fa la scuola che “dorme ed è fuori controllo”, le predette regole del lavoro fuori dal tempo, complici un’ineffabile sistema giudiziario e il nostro grado di inciviltà ed amoralismo che si riverberano in tutti i settori del terziario: è mancata, e manca tuttora, la cultura della crescita economica, industriale e soprattutto civica. Infatti la madre di tutti i circoli viziosi che vogano contro la crescita complessiva del nostro paese deve essere imputata all’evasione fiscale ed alla correlata corruzione con circa 300 miliardi di euro di economia sommersa in nero che evade dai 13 ai 15 miliardi di tasse, essenziale per garantire un minimo di servizi sociali: finchè non si metterà mano al sistema giudiziario del tutto fallimentare ed iniquo, c’è da attendersi ben poco nel futuro. Se non si riesce a rispettare le leggi nazionali  e quindi quelle internazionali, anche il libero mercato e la concorrenza vanno  a farsi benedire; senza stimoli e interessi per la concorrenza, la responsabilizzazione ed il gusto d’impresa segnano il passo ed al loro posto si preferiscono metodi più comodi di sopravvivenza, di tirare a campare, ma senza crescita: non pagare le tasse, lavorare in nero, qualche tangente qua e là, andare in pensione presto magari baby, mantenere un lavoro anche se sottopagato ma basta timbrare il cartellino (qualcuno di recente si dimentica pure di timbrarlo…) e vivacchiare sperando in qualche vincita al lotto: tanto, c’è sempre  qualche ammortizzatore sociale che verrà in soccorso, un po’ di cassa integrazione e se proprio va male c’è sempre l’welfare e lo stellone che vede e provvede. Se questi sono i capisaldi della nostra società, qualche illuso pensa davvero alla nostra crescita?  Gli italiani non amano la concorrenza, né in fondo la meritocrazia; sono allergici alla funzione del coordinamento e del controllo, del lavoro in team, alle regole, alla flessibilità e mobilità. I giovani diventano adulti stando in casa dei genitori, vogliono l’università sotto casa, la fabbrica a due passi e magari nella stessa città natale; cioè, anche loro hanno pretese che non sono del tutto coerenti con lo sviluppo economico di un qualsivoglia paese. Ma le colpe primarie sono delle generazioni più anziane, che piaccia o meno; noi non siamo stati capaci di investire nel capitale umano, di innovare e riorganizzare le imprese, di sfruttare appieno le potenzialità delle nuove tecnologie, e di adeguarsi tempestivamente alle rapide trasformazioni dell’economia mondiale snellendo l’attuale burocrazia con politiche innovative. In merito al capitale umano esiste una diffusa carenza di quelle competenze che rispondono alle moderne esigenze di vita e del lavoro; abbiamo poco più del 50% della popolazione che ha concluso la scuola superiore, e modesta è la quota dei nostri laureati che è meno della metà della media europea (15% vs il 32%): un’anomalia tutta italiana! E’ sicuramente importante accrescere la qualità del capitale umano da cui possono attingere le imprese rendendo il sistema educativo più efficiente e più attrattivo: scuole e università dovrebbero essere maggiormente indirizzate a favorire lo sviluppo di esperienze lavorative precoci e quindi la transizione nel mercato del lavoro. La crescita è funzione degli investimenti in ricerca e sviluppo (R&D) che insieme all’innovazione favoriscono l’occupazione aumentando il benessere complessivo; da noi la spesa in R&D è bassa nel confronto internazionale e lontana dall’obiettivo del 3% fissato dalla Ue per cui anche i brevetti italiani sono davvero pochi (4%, metà dei francesi e un quinto dei tedeschi..) soprattutto nei settori innovativi delle biotecnologie, dell’ICT e delle nanotecnologie: in Italia l’attività innovativa risente negativamente della mediocre capacità delle politiche pubbliche di creare un ambiente dinamico, favorevole all’innovazione. La sfida per le imprese è di realizzare un salto di qualità del prodotto e dei processi che le porti ad essere più grandi, più tecnologiche, più internazionalizzate, in modo da stimolare la crescita del capitale umano in termini di capacità di innovare, e ridurre la disoccupazione. Noi non abbiamo ancora capito che dobbiamo conoscere l’inglese, lingua universale della comunicazione umana, così come il linguaggio cibernetico-informatico del Web ed i meccanismi dell’economia globale che coinvolge l’intero pianeta; oggi se si vuole un posto di lavoro dovunque, è richiesta la conoscenza del computer con abilità specifiche sui programmi di scrittura, di calcolo, di presentazione e comunicazione: è l’equivalente della quinta elementare o della settima dei nostri nonni.

Non tocchiamo la Costituzione
Abbiamo constatato sulla nostra pelle e sulle nostre tasche che investire sui consumi con annunci roboanti non serve a nulla, ma al contrario servirebbe una politica che valorizzi il capitale umano, le innovazioni tecnologiche, la ricerca e sviluppo, gli investimenti e gli ammodernamenti strutturali, oltre a riformare quegli elementi istituzionali che rendano più efficienti i servizi, facciano rispettare le regole, e colpiscano “i furbetti” evasori e corrotti. Ma, per favore, non diffondiamo notizie false e tendenziose che nulla  hanno a che vedere con lo sviluppo del paese (una ministra è arrivata a sostenere che votando favorevolmente al prossimo referendum costituzionale si dà la stura allo sviluppo e si combatte il terrorismo…: nient’altro?); soprattutto evitiamo di toccare la Costituzione perché non ne siamo all’altezza e guarda caso è ancora del tutto valida: non è cosa da fare dai partiti perché di parte, né debbono crearsi commistioni con leggi elettorali, né può essere un buon motivo per mantenere “la cadrega”! La Costituzione è un’opera di ingegneria giuridica scritta da personalità di spicco che oggi non si rinvengono, anche per imparzialità per  tacere delle competenze, nel nostro mondo politico; la Costituzione non sarà bellissima come qualche incauto sostiene confondendo i valori veri, quelli dell’etica con l’estetica, ma detta principi e precetti che – nonostante siano ben esplicitati-  purtroppo non sono mai stati applicati nella loro interezza dai vari governi e dai parlamenti succedutisi dal 1948 ad oggi. Forse l’unico articolo da attualizzare in quanto anacronistico, per molteplici aspetti, sarebbe il primo in quanto “la nostra Repubblica (non) è fondata sul lavoro”, espressione eufemistica ed insignificante, visto che il lavoro oggi proprio langue e da sempre in Italia è una chimera. Se l’intento fosse stato meno ideologico e non avesse prevalso quel falso negazionismo, misto di propaganda e disinformazione dei legami col marxismo, la Costituzione avrebbe dovuto incentrarsi su quei valori ed ideali, come la libertà, il diritto, la legalità e la pace su cui si basano quasi tutte le costituzioni dei paesi democratici occidentali. Paradossalmente con un’impronta “leviatana”tipica dei regimi statalisti stava per passare, con il totale disconoscimento dei diritti basilari dell’uomo, la dizione all’art.1 , “L’Italia è una Repubblica democratica dei lavoratori…”: sarebbe stato un palese pasticcio sponsorizzato da alcuni legati a doppio filo con il comunismo d’oltralpe, condito con la moda antifascista del momento, e dal mondo cattolico. Nonostante tutto, la nostra Legge Madre ha un’architettura e contenuti tuttora validi e rispondenti alle nostre esigenze senza che qualcuno tenti di correggerla surrettiziamente, non avendone titolo: la nostra Costituzione non merita di essere stravolta da dilettanti; non è lì il punto! “La Costituzione è come una nobile signora, con qualche lieve ruga che non richiede interventi chirurgici” diceva allora il Presidente pro-tempore Napolitano: non si comprende come mai ora si candidi paladino per le sue modifiche referendarie. Che, se non fatte da espertissimi chirurghi maxillo-facciali, rischiano di trasformare quelle lievi rughe in sfregi: la nostra Costituzione non è colpevole di bloccare l’economia, né la crescita e tantomeno la nostra sicurezza e libertà, ma i motivi dello scarso sviluppo–come si è visto- sono ben altri.

Certi alibi e certe argomentazioni non reggono; non sarà certo il voto referendario costituzionale – che auspico decisamente negativo- a risolvere il problema del terrorismo dell’ISIS, né dell’invasione clandestina, né del disastro delle banche, né dell’inefficienza della giustizia, ma neppure a riavviare il Paese verso una crescita economica e sociale che, nonostante gli annunci ed i pochi fatti in termini di vere riforme, permane in uno stato di inazione e di opinabile, quanto indesiderata, stagnazione.

GIUSEPPE LERTORA