E la geo-strategia con la Cina, Russia, Nord Corea ed Ue.

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Alcuni “gufi” internazionali, fra i mass-media e coloro che si professano “liberal”, assertori della dottrina del “politically correct” e del Welfare ad ogni costo, comunque partigiani ipercritici dell’attuale Presidente USA, si stanno ritirando nelle loro tane, ammettendo – seppure a denti stretti – che quell’istrione di Trump, nonostante i repentini “cambiamenti” del suo staff (ultimo quello del Segretario di Stato), sta avendo successi insperati, non ultimo quello diplomatico che prevede un incontro imminente con Kim Jong-un in Svizzera.
Finora i media di tutto il mondo hanno fatto a gara per infondere paure planetarie ipotizzando addirittura lo scoppio della terza guerra mondiale (pure il Papa aveva espresso quelle nefaste ipotesi…) con armi nucleari, quale “end-state” delle reiterate ed effervescenti dichiarazioni e dispute semantiche fra Trump e Kim.   Un autogol mediatico difficile da digerire sia per le errate previsioni (per fortuna) sia per l’ostracismo motivato e palese dell’amministrazione Trump contro il mondo schierato dell’informazione e della spettacolarizzazione, sempre più cortocircuitato dalle mosse e dalla reale geopolitica del presidente.
Se è vero che capire le mosse e le intenzioni di Trump è impresa assai improba, come lo è per i vari leader delle potenze mondiali, è anche vero che prima di emettere sentenze gratuite bisognerebbe umilmente tentare una corretta ed obiettiva analisi della loro vision geopolitica e geostrategica, spesso invece interpretate confusamente quanto impropriamente. Molti soloni emettono sentenze spesso dettate da acrimonia partigiana senza una reale valutazione e conoscenza dei fatti, per partito preso; ma ancor più grave è che si piccano di parlare di geopolitica ignorandone il reale significato e l’apocrifa definizione per cui “ essa influenza le politiche di un Paese, ancorandosi alla geografia, ma tenendo di conto della storia di quel territorio e del relativo contesto tipico, tradizionale di quell’area o Nazione”. Quindi il presupposto fondamentale per parlare in modo acconcio di geopolitica è, oltre la necessaria obiettività e imparzialità, la basilare conoscenza della geografia politica, economica e perfino territoriale, ma anche della storia e delle tradizioni socio-culturali che tipizzano un Paese. Da noi, in particolare, a causa della presunzione e “povertà” del giornalismo indigeno e dei correlati schieramenti di bandiera, quei presupposti sono del tutto assenti anche per ragioni sistemico-sociali dovute alla ignobile deriva dei programmi scolastici che, nel tempo, hanno considerato la storia e la geografia delle cenerentole, dando colpi ferali all’istruzione, alla formazione ed alla stessa cultura delle nostre generazioni.
La geopolitica e la geostrategia non possono essere imparate e messe in opera dopo un corso accelerato al CEPU, ma richiedono studi specifici approfonditi in tutte le loro possibili declinazioni e una cultura geografica e del territorio non appiccicaticcia, altrimenti sono guai seri.
Per poterne trattare professionalmente, e non a vanvera come sovente capita, è necessario innanzitutto attenersi alla loro definizione di base e tentarne, quindi, di capirne gli effetti e l’importanza nelle vicende internazionali: la geopolitica, a cavallo fra una disciplina di alto profilo e una scienza, influenza ed esprime direttamente la politica estera ed il livello di ambizione di qualunque Nazione. In un’ottica più “allargata” la geopolitica ha ulteriori effetti anche in termini di rivalità o contenziosi per il potere, o per ambire a prevalere su diverse parti di un territorio, surrogata legittimamente da certi diritti storici e geografici, ma non senza il coinvolgimento della popolazione che serve ad esaltarne l’intensità e perfino la liceità.
Oggi parlare di “ragionamento geopolitico” nei confronti di leader di grandi potenze, significa comprendere la realtà ed i vari eventi, partendo dal fattore geografico, basandosi sui fatti e risultati; in qualche misura ne va valutata la leadership ed il carattere senza faziosità, allo scopo di comprenderne i reali disegni “geo”  idonei ad offrire proiezioni e scenari plausibili sul futuro a medio termine, calcolandone anche le conseguenze sul piano internazionale.
L’uso appropriato o maldestro degli strumenti della geopolitica può avere, altresì, in diversi ambiti storici, una notevole forza propagandista per giustificare il perseguimento di certi obiettivi e poteri, avendo riguardo primario della situazione geografica per costruire o anche demolire la storia politica di un Paese. Elemento centrale ed “abilitante” della geopolitica è la Comunicazione in tutte le sue declinazioni, compresa la ricerca delle informazioni con l’attività di “Intelligence” e con la messe di news vere o fake che i mass-media diffondono comportando la costruzione di scenari geopolitici reali o immaginari, e così rivestendo un ruolo fondamentale per far recepire all’opinione pubblica la giustezza delle proprie ambizioni: sembrano infatti prevalere nel campo geopolitico -anche nel mondo odierno- per la risoluzione di rivalità e di “appetiti”, le guerre delle comunicazioni che si sviluppano con una rapidità incredibile, piuttosto che quelle combattute sul terreno.
Da lì il passo è breve per trattare e definire la geostrategia, da intendersi come figlia o sorella minore della geopolitica per ciò che attiene alla sfera militare e alla tutela della sicurezza in genere, cioè una pratica piuttosto complessa ed articolata, o se si vuole un metodo concreto e pragmatico di visione militare, sempre ancorato all’elemento geografico, che  punta alla conquista di obiettivi vitali sia in termini propriamente territoriali, sia sempre più spesso di dominio di spazi importanti per l’esercizio del potere di quella Nazione.
L’applicazione di un ragionamento geopolitico e geostrategico, scevro da condizionamenti mediatici e ideologici, appare essenziale per capire le mosse di Trump nel contesto internazionale dopo quel periodo caratterizzato dalla “no strategy” obamiana, fulcrato su un’ondivaga dottrina del “leading from behind”, che non pare proprio aver lasciato impronte “geo” nella Storia moderna, se non una serie di danni sparsi un po’ dovunque e di incompiute. Sembra, da un’analisi globale, che la grande potenza USA abbia viaggiato per 8 anni col freno a mano tirato e le uniche mosse pseudo-geopolitiche, risultate improvvide quanto improduttive, siano sempre state fatte nell’alveo di quella religione del politically-correct , sintomatica di opportunismi e di tentati pavidi equilibrismi quasi mai risolutori di reali questioni geopolitiche: sta di fatto che gli States hanno visto sbiadire quel ruolo essenziale di poliziotto del mondo e di esportatore di democrazia su cui la politica estera di Washington aveva puntato, perseguendola positivamente per decenni, nel dopoguerra. I media con la loro ipocrisia e le loro falsificazioni sono stati al gioco; acritici e prezzolati dal sistema, hanno fatto apparire nel paio di lustri pregressi un mondo più tranquillo e gestibile mai mettendo il dito sulla piaga, né evidenziando i vari “casini” combinati da Obama a dritta e a manca lasciando, col suo “wait and see”, che ognuno andasse per la propria strada senza contrasti diretti: dall’immigrazione clandestina alle turbolenze mediterranee con le rivolte delle cd. Primavere arabe, alla ondivaga condotta della guerra ai talebani oltre a quella contro l’ISIS, alla ritirata in Iraq fino alla velata ed errata partecipazione al conflitto siriano, al mancato palese supporto a Israele vs il mondo arabo, per citare solo alcuni “misfatti”. Di più; anche fuori dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, spostandosi nel Pacifico dove aveva concentrato, così dicevano gli esperti, gli interessi americani, ha attentamente evitato di sporcarsi le mani nella diatriba con la Cina sia per i possedimenti insulari nel Mare meridionale, sia in termini di geo-economia ed ancora nella diaspora su Taiwan.
Nel delicato settore nucleare ha lasciato fare al despota Kim Jong ciò che voleva, senza minimamente interferire con la ben nota volontà di quell’individuo di mettere a repentaglio la sicurezza degli USA e di quella globale, mentre nei confronti del regime degli Ayatollah è riuscito a fare un negoziato talmente farlocco da essere giudicato “il peggior accordo mai fatto storicamente dagli americani”.
Più difficile e prematuro fare la pagella a Trump, sempre più avversato e tacciato di populismo dai democrats e invidiato dai più per il suo ingente patrimonio, ma che ha saputo toccare il cuore e la testa della maggior parte degli americani con “uscite” anticonformistiche, spesso dirompenti che, comunque, avevano come minimo comune multiplo il patriottismo da un lato e la ribellione ad un oppressivo establishment dall’altro, compresa l’inazione. Gli va dato atto che sia in politica interna, a fronte di una maggiore sicurezza in generale, ha sferrato colpi pesanti all’immigrazione, all’health-care, all’abbattimento delle tasse, ecc; anche in politica estera, nell’ambito dell’assunto di “America First” è riuscito a mantenere quasi tutti gli impegni presi in campagna elettorale, con il pregio indiscusso di “sparigliare” le carte ovunque, dall’Asia al Medio Oriente, nei rapporti con la Russia, in quel di Gerusalemme, in Europa, nella NATO e, non ultimo con pesanti zampate nella corsa nucleare con il Nord Corea e l’Iran.
In altre parole sotto il profilo geopolitico si avverte una differenza fondamentale fra i due Presidenti: Obama sempre attento ai diritti sociali e umani ha caratterizzato il suo mandato sproloquiando e mantenendo una postura “pastorale” di inazione e di privilegio dello status-quo, senza mai sporcarsi le mani nelle aree di crisi, dal Medio Oriente al Pacifico,  stando nelle retrovie e compiacendosi con la stampa e lo spettacolo; per contro Trump, avversando quel mondo mediatico e hollywoodiano, decide spesso con un attivismo singolare andando a sfruculiare ovunque, dall’Est all’Ovest, sempre più contro la politica del vecchio establishment, avendo come priorità “scomoda” i temi negletti dell’immigrazione clandestina, della Homeland security della propria Nazione, e del suo sviluppo economico-industriale.
Si tratta di analisi obiettive desunte dai fatti, ma anche di valutazioni in termini di leadership e di strategie a prescindere da opinioni personali o simpatie, scevre dai “gossips” e da quelle info abusate anche per evidenti quisquilie artatamente esaltate e mal digerite nei confronti di Trump e del suo entourage. A partire da quel misconosciuto Wolf, autore del libro “Fury and Fire” che, non senza ritorni venali ed ideologici, gira il mondo per affossare e far naufragare Trump, con la connivenza dei nostri conduttori di infimi talk-show fra cui quello della sinistra “ Lilly” e con gli aspri commenti di quella schiera di fanfaroni radical-chic del club del politically- correct a sbafo (dal fantozziano Friedman, al santone Saviano dal suo attico a New York, fino a quella nullità rossa della nostra corrispondente Botteri, ecc.), amanti dell’afro-Obama e dei clan clintoniani: tenuto conto della caratura di quei personaggi, viene da dedurre che il “rovescio” delle loro opinioni sia quanto di più logico, onesto e giusto si possa pensare nei confronti di Trump, bersagliato con odio da quei facinorosi e purtroppo numerosi altri liberal- sinistri del pianeta. Una caratteristica fondamentale e macroscopica in termini di leadership, invisa soprattutto ai mass-media, balza immediatamente all’occhio: Trump non usa mezze misure, ma spesso anche la forza muscolare nelle situazioni più intricate e, senza infingimenti ma con un taglio geostrategico, pone in risalto innanzitutto il territorio, la geografia, col suo  “America First” puntando sul concetto di Patria e di tradizioni insieme (ricordiamo la sua reazione nei confronti dei giocatori di football che si rifiutarono di stare in piedi durante l’Inno Nazionale) stando in prima linea e guidando il Paese “from the front” contrariamente a Obama aduso a farlo “from behind”, predicando assai ed in modo fumoso, quasi non avesse radici su quel territorio.
E’ pur vero che gli americani, di fronte alle crisi economiche e sociali occorse negli ultimi anni, erano visti sempre meno come i leader garantisti di quell’ordine internazionale fatto di convenzioni, norme ed alleanze riconosciute; la conseguenza e gli effetti di una mancanza di geopolitica autentica, proprio in politica estera, ha provocato l’abbandono del loro ruolo di poliziotto globale consentendo, con il determinante apporto ignavo di Obama, l’avvento del disordine internazionale.  Siamo passati dal dopoguerra ad oggi, dal ruolo di dominio degli States, verso approcci decisamente più soft, quasi allergici alle armi ed ai coinvolgimenti sul campo nei vari teatri, con ipocrite commistioni di alleanze fra “volenterosi” per la soluzione di crisi o conflitti, in modo che gli USA non comparissero come invasori, ma esportatori di una fantomatica democrazia anche in aree ove ciò è impraticabile in quanto sconosciuta e perfino indesiderata.  Quell’ordine internazionale preesistente, tenuto insieme dal collante e dominio americano, costituiva pur sempre un riferimento di democrazia e di sicurezza globale per tutti e nessuno, dalla Cina all’India, e perfino la Russia, avrebbe desiderato demolirlo anche in termini economici, sostituendolo con un surrogato sconosciuto, quanto indefinito. Né certe situazioni instabili possono essere recuperate o sanate mettendo “pezze a colori” con l’avvio di surrettizi trattati (basta ricordare quelli in Afghanistan e in Iraq ) anche in campi assai delicati come nel nucleare, oppure con il tentativo avviato da Obama col Trattato di non Proliferazione con l’Iran, basato sulla fiducia e su belle regole teoriche che, alla luce dello status attuale, ha dimostrato l’inefficacia nel costituire una qualche barriera per lo sviluppo del nucleare “sporco” da parte dei Paesi più pericolosi. Molti dei problemi venivano riversati sull’organizzazione delle Nazioni Unite, divenute via via un ente potente quanto inutile sul piano dell’efficacia nel mantenere l’ordine internazionale; l’ONU si è trasformato in una sorta di “stipendificio” di alto livello ma ormai senza alcun rilievo sul piano pratico e fattuale; come le sue costose diramazioni, dalla FAO, all’UNESCO al WTO, notoriamente enti decotti, da cui giustamente Trump è uscito o intende uscire, pur mantenendoli per ora in vita sul piano tecnico e diplomatico: come dargli torto?  Sotto il profilo economico la forzosa uscita di Trump dal Trattato Trans-Pacifico, avvenuta lo scorso anno, ha creato non poco scompiglio, quasi come l’imposizione dei dazi sull’acciaio e sull’alluminio, firmata solo l’altro ieri, nell’ assunto che gli americani non possano sempre subire accordi sconvenienti a livello mondiale con negativi e costosi effetti.         In tale ottica si inserisce l’attacco diretto al sistema di alleanze, prima fra tutte la NATO, i cui partecipanti non possono continuare a fare gli “gnorri” confidando sempre nell’intervento protettivo degli US, senza contribuire solidamente con almeno il 2% del PIL; e, sempre in un’ottica di equilibrata cooperazione, scambiata dai detrattori come forme di “isolazionismo”, sono state invece promosse diverse partnership con carattere assai più geopolitico e proficue con la Cina ed il Giappone per ingabbiare le mire del Nord Corea, ma non solo.
Nella lotta contro il terrorismo dell’ISIS, che Obama non aveva mai voluto dichiarare “islamico” nei suoi infiniti speech, ha tentennato a lungo con strambe alleanze in Siria producendo solo danni, mentre con il nuovo corso ci sono stati innegabili risultati con le sconfitte di Mosul e Raqqa, fino allo sbando di quelle nefaste bande di criminali. Forse è vero che ormai nessun Stato desidera ascoltare più le litanie kantiane sulla fratellanza universale e sulle grandi teorie umanitarie, ma piuttosto tutti guardano da vicino le crude realtà e “come” gestire le crisi in atto, la disoccupazione e la loro sicurezza; il pianeta sta virando infatti da quell’ordine internazionale, complice la globalizzazione e l’inettitudine di quei potenti leader, verso una geopolitica che pone al centro il loro territorio, il benessere e la sicurezza endogena; ciò spiega in buona misura l’esito della Brexit, il rinascere di partiti più “patriottici” e nazionalisti anche nel Vecchio Continente e perfino la stessa elezione di Trump: di fatto è cresciuta l’intolleranza nei confronti di interferenze nella loro sovranità e nelle proprie forme di democrazia, dando più voce al popolo che si è rivelato quantomeno scontento del precedente andazzo fatto di grandi promesse, quasi mai realizzate.
Gli schiaffi che Trump ha mollato a dritta e a manca possono sembrare perfino inopportuni, ma hanno avuto sicuramente una qualche efficacia, che piaccia o meno; l’Europa e la NATO stanno reagendo con una maggiore coesione dopo che al recente summit di febbraio, gli USA hanno ribadito di essere stufi di pagare e combattere per tutti gli altri, mentre ci sono Stati-membri benestanti che si rifiutano di fornire il giusto contributo di risorse. Anche la reazione della NATO/Ue di creare la REI, Reassurance European Initiative, e quindi la PESCO, Permanent Structured Cooperation on Security  (in termini di slogan siamo imbattibili!), progetti finalizzati a spendere di più e migliorare le capacità combat e la Sicurezza, hanno fatto nascere non poche perplessità sull’altra sponda proprio in termini protezionistici, in quanto quelle nuove idee potrebbero indebolire la NATO stessa a favore di una Difesa europea ancora nel limbo, e mettere fuori gioco i prodotti dell’industria militare US dal procurement europeo:  chi sostiene che esiste qualche relazione fra quella sorta di neo-protezionismo americano con l’imposizione dei dazi su prodotti strategici, e la REI o PESCO  e, quindi, con il mancato contributo del famoso 2%, da parte dei membri, forse non ha tutti i torti!  Alcuni Paesi continuano a “glissare” sperando che passi la “nottata Trump”; in primis gli italici visto che alcuni giorni fa il Minidifesa ha affermato che si intende cogliere l’obiettivo del 2% per il 2024 ?!, partendo da un rapporto percentuale della Funzione Difesa con il PIL che langue sotto l’1%, anzi drammaticamente sotto lo 0,8%, perciò lontanissimo da quel 2% auspicato in ambito NATO. E ciò con il continuo disinteresse soprattutto per l’Esercizio (manutenzioni e addestramento) che resta quasi una chimera da quel paradigma auspicato del 25% del Budget Difesa: sembra che non si impari nulla dall’inefficienza dei mezzi attuali, spesso costosissimi e fermi per mancate manutenzioni e dei fondi per acquisire quei pezzi di rispetto carenti.
Fare un confronto con il Budget del FY 2018 varato da Trump avrebbe poco senso e ci lascerebbe esterrefatti, ma può darci utili indicazioni sulla geostrategia che persegue; intanto l’aumento medio nelle varie voci dall’armamento, all’addestramento, e soprattutto nelle manutenzioni, del 20% in più rispetto ai tagli voluti da Obama, compresi gli organici di personale, porteranno il complessivo a 686 miliardi di dollari (contro i nostri 12!), con un innegabile segnale di forte attenzione verso il comparto Difesa e Sicurezza. E’ anche chiaro che le priorità geostrategiche espresse dagli US, pur sorvolando sul rafforzamento della “triade nucleare” con maggiori e più potenti Unità Navali, sommergibili atomici e aerei, sono orientate alla competizione con Cina e Russia con la concreta previsione di “poter operare in combat situation, in tre teatri o regioni geografiche diverse, evitando aggressioni nel Pacifico, in Europa e in Medio Oriente, nonché distruggere il terrorismo e annichilire le minacce delle WMD portate da attori statuali e non, nei riguardi del territorio statunitense”: una dimensione inconcepibile se non in una visione geostrategica che tende a “ri-garantire” quel ruolo di poliziotto planetario finora appannato, magari con diversi equilibri globali.
In definitiva, chi pensa che quel ruolo sulla scena internazionale degli americani declinerà nei prossimi lustri, fa un grosso errore, vista la nuova geostrategia posta in essere da Trump in particolare con il rafforzamento cospicuo della potenza navale sempre più proiettabile nel globo e la valorizzazione, pertanto, del Potere Marittimo nella sua vasta accezione “per l’influenza nella Storia dei popoli..” propugnato, oltre un secolo fa, dall’allora Comandante Mahan, maestro di strategia navale.
La dottrina della “America First”, o meglio quella della “propria Nazione First” dovrebbe essere il motto di ogni Paese democratico che, al di là delle dimensioni e delle relative ambizioni geopolitiche, crede nel proprio destino ed è fiero della propria sovranità, mettendo in cima alle proprie priorità il senso di Patria e gli interessi nazionali, dando giusto valore e risalto, concretamente, alla propria Difesa e Sicurezza.
L’attuazione di quelle strategie vitali e concettuali non vuol dire essere “isolazionisti”, ma significa gestire la cosa pubblica con crudo realismo, buttando nel cestino quelle frivolezze e superficialità da “bon-ton” legate alla cloroformizzante “correttezza politica” e riorientando le energie e priorità della politica non su provvedimenti di ordine etereo e moralistici a buon prezzo, ma su temi concreti inerenti lo sviluppo, la sicurezza e per tutelare un prestigio ed una migliore reputazione del Paese: solo così, con una leadership forte motivata da un sano  realismo che sappia declinare correttamente la geopolitica nelle varie ed opportune forme, si potrà ripristinare un certo ordine internazionale, la sovranità degli Stati e la loro dignità, e forse ritrovare anche una maggiore sicurezza e serenità nelle nostre vecchie abitudini.

GIUSEPPE LERTORA