Un team di esperti svela la teoria che potrebbe gettare nuova luce sul volo MH370, uno dei più grandi misteri della storia dell’aviazione moderna

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La cronaca di questi giorni parte da una puntata del  programma televisivo “’60 Minutes” edizione australiana, dal titolo “Cosa accadde al volo MH370″? Uno dei più grandi misteri dell’aviazione moderna, MH370 era il collegamento aereo operato l’8 marzo del 2014 da Malaysia Airlines. Decollato dall’”International Airport” di Kuala Lumpur, Malesia, il Boeing B-777/200ER era diretto a Pechino con a bordo 227 passeggeri e 12 membri d’equipaggio; scomparve improvvisamente dagli schermi radar mentre effettuava la tratta e presumibilmente si inabissò nelle acque profonde dell’Oceano Indiano meridionale.

Di enormi proporzioni furono le ricerche operate congiuntamente da diversi Paesi tra i quali Australia, Cina, Thailandia, Indonesia, Singapore, Vietnam, Filippine e Stati Uniti con l’ausilio di navi, aerei, elicotteri e mezzi oceanografici sfruttando anche l’ausilio dei satelliti. Diverse furono le segnalazioni -più o meno attendibili circa il rinvenimento in acqua o spiaggiate di parti od oggetti presumibilmente attribuibili al velivolo scomparso- in funzione delle quali vennero più volte ridefinite le aree di ricerca ed avviate nuove indagini. Fiumi di inchiostro vennero consumati mentre sulle cause della scomparsa fiorivano le più disparate ipotesi comprese quelle che contemplavano trame cospirazionistiche.

Fino a queste ore, quando il programma televisivo dopo aver avviato un’indagine parallela non ha riunito nel corso della puntata un team internazionale di esperti di incidenti d’aviazione. Nello specifico uno di questi, Martin Dolan, che per due anni ha guidato le ricerche sottomarine del velivolo e del suo prezioso carico umano, ha aperto la strada all’ipotesi che il pilota malese Zaharie Amad Shah, con intenzioni suicide abbia pianificato a lungo il volo in modo da eludere i radar e rendere invisibile l’ultimo tratto percorso prima di far precipitare l’aereo in un’area remota.

Per mesi si pensò ad un tragico

 incidente dopo che le perquisizioni in casa del pilota e del copilota  Fariq Abdul Hamid non avevano portato ad indizi significativi. Ma alla luce di questa ipotesi acquista nuovo significato un software di simulazione di volo rinvenuto in casa di Shahe trascurato dagli investigatori. Che potrebbe essere stato usato dal comandante per esercitarsi al suo piano di volo segreto.

La teoria è confermata dal parere di  Larry Vance, air crash investigator canadese. E supportata anche dal parere del pilota e istruttore di B-777  Simon Hardy che dopo aver “ricostruito” il piano di volo del B-777 Malaysia basandosi sui radar militari, ha dichiarato che Shah  ha sorvolato il confine tra Malesia e Thailandia attraversando lo spazio aereo di ogni Paese per evitare di essere scoperto. Secondo Hardy il pilota, capitano veterano, avrebbe anche “attinto con l’ala” i cieli di Penang, sua città natale: una sorta di “commovente addio” prima del suicidio. “E’ indubbio che qualcuno abbia pilotato l’aereo fino alla fine”, ha insistito il pilota istruttore sostenendo che l’aeromobile ha proseguito il volo per oltre 115 miglia rispetto a quanto originariamente pensato “per nascondere  l’aereo il più lontano possibile dalla civiltà, il che ci porta al di fuori dell’area di ricerche battuta attualmente”.

La scelta del luogo dell’impatto non sarebbe casuale nemmeno secondo Simon Harwey, un pilota britannico che lavora in Asia, secondo il quale il collega malese avrebbe “deciso di far precipitare il velivolo lungo il confine tra la Thailandia e la Malesia proprio per evitare che una delle due parti intervenisse”.

Tornando a Vance, a supporto della sua visione questi porta anche il relitto -ritenuto parte del mezzo scomparso-  rivenuto lungo le coste dell’Africa. Si tratta di un componente di un’ala: “se la parte anteriore di questa fosse stata  compressa e vuota, l’acqua l’avrebbe riempita facendola esplodere dall’interno; quindi questo pezzo non sarebbe nemmeno stato rinvenuto perché esploso. Non si è trattato dunque di un incidente incontrollato”.

Nel corso della discussione tra gli esperti- diversi dei quali dissentivano appunto con lo scenario  di inabissamento accidentale incontrollato descritto dagli investigatori dell’Australian Transport Safety Bureau- è emersa anche infatti l’ipotesi secondo la quale Shah avrebbe indossato la maschera dell’ossigeno prima di depressurizzare l’aereo, in modo da far perdere conoscenza agli altri occupanti e poter dunque compiere indisturbato l’insano gesto. Gesto definito “uno degli atti più atroci nell’aviazione commerciale moderna” dall’analista nonché presidente dell’Atmosphere Research Group Henry Harteveldt.

In basso, nel video uno stralcio della trasmissione tv:

(AvioNews)