Dall’azione militare in Siria al ritiro sull’accordo nucleare con l’Iran.

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Il sismografo che registra i fatti più importanti della nostra Storia contemporanea ha sicuramente oscillato con una certa intensità riportando alcuni picchi, o se si vuole, alcune “scosse” in concomitanza con le decisioni statunitensi nel teatro mediorientale e, più in generale, nell’ambito del nucleare; la speranza è che si tratti non di terremoti, ma piuttosto di giusti, ancorché violenti, segnali di assestamento nell’ordine internazionale per un futuro più sicuro.
Al di là delle opinioni personali sulle mosse-scosse dell’amministrazione americana, spesso criticate dai mass media a priori e a prescindere, i fatti oggettivi e alcuni recenti incisivi interventi possono servire comunque a declinare i lineamenti, gli indirizzi e l’attuale perimetro della neo geopolitica statunitense. Certamente un fatto straordinario che riguarda gli equilibri nucleari e la loro pericolosità, risiede nell’accordo US-Nord Corea e negli esiti conseguenti all’imminente storico incontro fra Trump e Kim Jong-un, fra meno di un mese: tutti, o quasi, dando fiato alle grancasse mediatiche di parte ed alle “rustiche” dichiarazioni di entrambi, pronosticavano – fino a poco fa – che quelle dispute sul nucleare avrebbero condotto alla Terza guerra Mondiale, mentre per fortuna si assiste ad un avvicinamento incredibile fra i due. Va rilevato invece che sono passati almeno tre Presidenti degli USA, da Clinton fino ad Obama che, pur consci del pericolo nordcoreano, non hanno combinato nulla, se non grandi e vuoti sermoni.
Parlare di conseguenze di quelle mosse può essere prematuro e perfino illusorio, ma sicuramente negli anni a venire avremo modo di riscontrarle e potremo direttamente percepirne gli effetti su ciascuno di noi; oggi, comunque potremo avanzare delle considerazioni sui “pro-con” di quelle decisioni e pervenire, ad ogni buon conto, a valutazioni nel merito ancorché iniziali, ma abbastanza oggettive, fattuali e realistiche. Vale quindi la pena, restando nel delicato ambito del nucleare, di riflettere su un evento più recente e assai attuale che riguarda il mancato rinnovo dell’accordo con l’Iran siglato da Obama nel luglio del 2015, e rigettato da Trump fin dalla campagna elettorale in quanto considerato come “il peggior accordo con una Nazione sul nucleare”: il non rinnovo è motivato sicuramente da una sorta di coerenza per tener fede alle promesse elettorali e per dare una stoccata ad Obama, ma – soprattutto sulla base delle indicazioni e delle valutazioni dei Servizi suffragati da quelli israeliani – per dare un messaggio “forte e chiaro” agli Ayatollah, rigettando quell’accordo e ripristinando le sanzioni nei loro confronti, anche sulla scorta degli sviluppi sul nucleare della analoga situazione nordcoreana.
La terza “scossa” di un certo rilievo geostrategico, di cui peraltro è già stata fatta una “analisi logica e strumentale” con un precedente articolo (“Attacco contro le armi chimiche in Siria: considerazioni logiche e riflessioni geopolitiche” del 6.5.2018), riguarda l’azione militare condotta in Siria il 14 aprile scorso, dalla coalizione franco-anglo-americana contro i depositi e centri di comando/controllo di armi chimiche, in relazione al loro presunto uso da parte di Assad (o delle milizie opposte?) nei pressi della città di Douma. L’intervento siriano è emblematico della strategia – anche in politica estera – dell’‘America First’ con una policy che da un lato tende a ri-guadagnare quel ruolo di “poliziotto del mondo” e, dall’altro a “risparmiare” sui propri contingenti in teatro, coinvolgendo maggiormente le forze locali amiche o regionali di quel territorio. Subito dopo l’attacco con i missili da crociera è stata dichiarata l’intenzione di non interferire e di non intervenire negli “affari interni” siriani e, contestualmente, chiesto alle Nazioni Arabe, incluse Egitto e Arabia Saudita, di supportare le forze sul terreno in modo da rimpiazzare in buona misura le truppe americane in Siria. In sostanza piuttosto che destinare ingenti risorse umane US mettendole a rischio, gli States intendono operare con una nuova policy che “utilizzi, insieme e attraverso”, al contrario del noto obamiano  “leading from behind”, le forze regionali disponibili per garantire il conseguimento dei propri obiettivi di sicurezza nazionale.
Ciò spiega, in qualche misura, anche il dichiarato disimpegno USA dalla NATO e soprattutto dall’Europa, ai quali è stato ribadito che debbono “darsi da fare da soli” perché l’America non può – e non intende –  provvedere in futuro alla loro Difesa, quasi gratuitamente. E’ molto probabile che non si tratti di un vero e proprio disimpegno, ma i messaggi sono arrivati distintamente e gli USA chiederanno sempre più ai locali e regionali coinvolti in un conflitto, una maggiore partecipazione seppure debitamente supportati dai loro soldati, ma in misura assai diversa: una bella sparigliata di carte che assomiglia più ad una sonora “pesciata” ovvero ad una scossa tellurica dirompente.
Se poi, un simile approccio funzionasse davvero, sarebbe un modello migliore e più economico per fare le guerre, soprattutto con un grosso risparmio di truppe US e di vittime nei diversi teatri: è importante e vitale, perciò, trovare dei veri “amici” cui affidare quei complicati e delicati compiti locali.
L’attuale Comandante di US Centcom ha infatti dichiarato che, operando con i criteri del “by, with and through” con gli Alleati e partner, consente di moltiplicare le forze e gli effetti desiderati con un loro relativo impegno, sottintendendo che, in Medio Oriente ed altrove, non saranno più dispiegate forze americane in massa.
D’altronde il modello che prevede di utilizzare i partner locali o in diversa misura le coalizioni dei volenterosi non è nuovo, anzi; la guerra al terrorismo conseguente al terribile attacco alle Torri Gemelle del 2001 ne è stato l’esempio con la finalità di avere “gli amici” al fianco, ma – e qui sta la differenza rispetto alla nuova policy assai più restrittiva nell’invio di grossi contingenti nei teatri- con un impegno massiccio dei militari americani in situazioni di “combat” e con ingenti sforzi per sviluppare le FFAA e le forze di polizia in Iraq ed Afghanistan, in particolare.
Se è vero che nelle grandi democrazie i fondamenti della politica estera, pur nelle alternanze dei Governi, non prevedono forti cambiamenti almeno nella policy concettuale, è  anche vero che se la stessa si rivela palesemente stantia, confusa ed inefficace, ci vuole una forte leadership con l’assunzione di ingenti responsabilità, pronta a pagare le conseguenze di eventuali “deviazioni” e comunque con la determinazione a farle valere: lo richiede la coerenza nei confronti del corpo elettorale, ma soprattutto ciò sta alla base della credibilità di un ruolo primario internazionale.
Una domanda sorge spontanea: quanto sarà efficace questa nuova strategia, basata sulla lealtà e sulla fiducia di “amici” che abbiano la volontà vera e gli interessi da affiancare e condividere consapevolmente con gli americani in aree conflittuali?
In diversi teatri comunque quella policy è in atto da qualche tempo e da quello siriano si riscontrano le prime applicazioni; le forze americane hanno intensificato in Siria la cooperazione con i combattenti Arabi e Curdi del SDF – le forze democratiche siriane-  per sconfiggere l’ISIS e conseguire alcuni obiettivi militari di rilievo. L’aiuto americano in termini di equipaggiamenti, consiglieri, e soprattutto di supporto aereo, ha consentito al SDF di riprendere con successo ampi territori nel Nord ed Est della Siria, con un minimo di perdite umane. Le forze locali hanno giocato –e giocano tuttora- un ruolo essenziale nei combattimenti sul terreno e, anche dopo, nel re-instaurare un sistema istituzionale e amministrativo con rapidità e sufficiente efficacia, essendo radicate sul territorio: sono una pedina fondamentale per avviare il processo spesso ostico ed incompreso dagli stranieri per la stabilizzazione e la successiva riconciliazione popolare. Va detto che la cooperazione con le forze del SDF ha dato risultati assai positivi, ma va anche ribadito che applicando il “by e with” con le forze locali, specificatamente con gli “amici” curdi, i valorosi peshmerga, e stabilendo accordi con “il diavolo” iraniano con ingenti truppe sul terreno, gli USA hanno riportato vittorie storiche sui terroristi dello Stato Islamico, successivamente cacciati dalle loro più importanti città occupate. E’ chiaro tuttavia che l’utilizzo degli ‘amici’, se da un lato può rivelarsi assai utile, dall’altro può provocare successivi “disturbi”, inizialmente non avvertibili, fra i vari attori presenti nella scena d’azione; nel caso siriano quelle amicizie hanno complicato, fra l’altro, le relazioni con la Turchia, una Nazione NATO che, avendo da sempre combattuto il gruppo PKK tacciato di terrorismo ma alleato in Siria con le forze SDF, l’ha fatta scivolare più vicino alla Russia.
Quella forma di disimpegno geopolitico degli US coinvolge così sempre più gli “amici” del Medio Oriente, dall’Arabia Saudita, all’Egitto, ad Israele anche e proprio nella situazione siriana, tanto più ora, come conseguenza del ritiro dall’accordo nucleare con l’Iran e la re-introduzione delle sanzioni nei confronti del regime degli Ayatollah.  Quel JCPOA, il Joint Comprehensive Plan Of Action, in sostanza l’accordo firmato da Obama resterebbe in vita, anche se non si sa in quali termini, con la Cina, Russia, UK ed i Paesi della Ue, mentre secondo le dichiarazioni di Teheran “l’arricchimento dell’uranio riprenderà con intensità assai maggiore di prima” nella considerazione che le sanzioni avranno impatti praticamente ininfluenti. Quel ritiro dimostra che gli accordi diplomatici sono carta straccia e che, indubitabilmente, gli americani vogliano riprendere il timone in mano a livello globale, soprattutto sul tema nucleare, dando un segnale forte contro le ambizioni “occupazionali e di influenza” dell’Iran che si è esteso in Medio Oriente quanto e più della stessa, combattuta, ISIS. L’Iran ha giocato duro contro ISIS in Iraq e in Siria, e ciò gli ha consentito di espandere la sua influenza sciita in un vasto territorio, quanto un Califfato, che abbraccia un arco da Teheran a Baghdad, a Damasco e ora a Beirut; gli Ayatollah sono riusciti a accattivarsi – almeno inizialmente – pure il benestare degli States per il loro decisivo contributo nella lotta all’ISIS, ma hanno anche stabilito accordi importanti con la Russia e la Cina sia in rapporto al teatro siriano che, perfino, nel conflitto afgano.
Nella delicata partita un ruolo decisivo è stato giocato da Israele che, di recente, con la pubblica presentazione di scottanti documenti dei suoi Servizi, aveva denunciato Teheran di voler perseguire segretamente il programma per sviluppare ordigni atomici militari, a prescindere da quel JCPOA, gettando benzina sul fuoco affinché gli USA non rinnovassero quel pericoloso accordo. Chiaramente oggi, sia gli americani che diversi alleati firmatari, in primis Israele e Arabia Saudita, non essendo più legati a quell’accordo, potrebbero avere le mani libere per colpire le forze di Assad e quelle iraniane presenti in Siria, oppure le milizie di Hezbollah e di Hamas che di fatto sono la “longa manu” di Teheran, pericolosamente prossime a Israele: ciò potrebbe anche comportare l’innalzamento di particolari tensioni nell’area con un probabile riarmo dei Paesi con armi convenzionali, e non. E’ perciò assai probabile che l’obiettivo principale di Trump, applicando una certa strategia negoziale, sia quello di creare un fronte ampio per mettere ulteriori pressioni su Teheran allo scopo di ottenere concessioni su questioni importanti come sui missili balistici, ma soprattutto quello di tentare di limitare l’influenza dell’Iran nella regione più in generale, a partire dalla Siria. Non va dimenticato inoltre che i teatri in cui gioca pericolosamente l’Iran, spaziando dalla Siria al Libano, al Golfo Persico, oltreché importanti sotto il profilo geopolitico, hanno una valenza del tutto rilevante sotto quello geo-economico in relazione agli enormi interessi energetici; basta poco, anche semplici provocazioni o attacchi sparuti nei confini israelo-palestinesi, o in Siria per innescare conflitti su vasta scala che in definitiva vedrebbero schierati gli Sciiti contro i Sunniti, i primi sostenuti dalla Cina e presumibilmente dalla Russia, ed i secondi da Israele, Arabia Saudita e States.
Anche a prescindere da quei “venti di guerra”, mentre tutti tenteranno di combattere il terrorismo dilagante e in qualche modo prendere posizione nei diversi schieramenti, il Vecchio Continente e la sua Ue, quale terzo incomodo, rischia di prendere schiaffi a destra e a manca; in primis a causa delle annunciate sanzioni alle aziende straniere che continueranno a cooperare con Teheran sui loro programmi strategici; in secondo luogo per le negative ripercussioni che in caso di crisi o di conflitto sarebbero determinate dalle difficoltà dei rifornimenti energetici all’Occidente e, più in generale, per l’incremento dell’immigrazione da quei Paesi, di cui – fra l’altro – l’Italia pagherebbe forse il prezzo più alto, considerato che già oggi è ritenuto l’approdo più facile e accogliente.
In definitiva, pur senza voler trarre conclusioni su una strategia così fluida e complessa, perché sarebbe ingiusto quanto pretestuoso, dalle considerazioni espresse si possono certamente desumere alcuni aspetti oggettivi:

  • il concetto di ‘America First’ è applicato in modo sempre più incisivo e strategico anche negli ambiti di politica estera, con la costante ma rinnovata attitudine degli USA a riguadagnare il ruolo di poliziotto planetario, seppure con un approccio assai diverso dal pregresso; le virate e le mosse recenti prefigurano infatti una diversa policy di utilizzo (insieme o attraverso) delle forze locali  anche con mirate alleanze di convenienza, ma finalizzate al parziale disimpegno delle forze militari USA dai teatri di guerra;
  • all’Iran è stato dato un pesante warning nelle sue attività nucleari e non solo, ma anche per evitare quella perniciosa saldatura di un arco di influenza sciita che lo vede protagonista da Teheran a Beirut, con un pericoloso avvicinamento ai territori israeliani;
  • ad Israele, con la rinuncia a quell’accordo con l’Iran, si è palesato un supporto straordinario come non avveniva da tempo e, implicitamente, si è garantita a quel popolo una libertà di azione nei confronti dell’Iran e dei suoi alleati (Hezbollah ed Hamas) per tutelare la propria sopravvivenza. Che, va detto, rappresenta oggi più che mai un’esigenza vitale per quella Nazione e una pedina democratica di alta valenza geopolitica in una regione sempre più invasa dalle milizie iraniane, le quali hanno preso il posto di quel Califfato e dello Stato Islamico con ambizioni analoghe, ma di fede sciita, e con il benestare di grandi potenze;
  • il messaggio finale è che Trump, che piaccia o meno, continua ad implementare ciò che aveva pre-annunciato in campagna elettorale: dalla presenza minimale di militari statunitensi negli attuali e nei futuri teatri di guerra, riportandoli a casa per quanto possibile, alle sollecitazioni nei confronti dei russi, fino a considerare l’Iran un pericolo mondiale, oltreché per gli aspetti sul nucleare, anche quale produttore e sostenitore – da Stato canaglia – del terrorismo internazionale. Nei riguardi dell’Europa, infine, ed in buona misura per la NATO, c’è un forte richiamo all’assunzione di maggiori responsabilità che non si limita al settore meramente militare, ma spazia in quello economico e commerciale.

Speriamo che non ci siano ulteriori e pesanti ‘scutiglioni’, ma è ovvio che “il gendarme” si è accaparrato nuovamente il ruolo che gli compete, sparigliando le carte del vecchio establishment con una policy che a qualcuno può sembrare balzana, ma se non altro ha il pregio di essere trasparente e decisa, e senza quegli indefiniti “se e ma” di obamiana memoria. E se quella mossa nei confronti dell’Iran riesce ad evitare effettivamente la proliferazione nucleare nel già instabile Medio Oriente, come sta avvenendo con il Nord Corea nell’area del Pacifico, significa che la policy è quella giusta, sicuramente non improvvisata come vorrebbero far credere alcuni radical-chic, e che sa cogliere le più cogenti priorità geostrategiche a livello internazionale, prendendo le decisioni conseguenti.
E’ anche pacifico che la bilancia dei “pro-con” inerenti a tali decisioni di fondo oscilla, a seconda dei pesi che si mettono e si annettono ai diversi “issue”; se prevalgono i pesi tattici, di bottega e di convenienza nel piccolo cabotaggio, compresi quelli dei Paesi dell’Ue che si sentono tagliati fuori dal business per esempio con Teheran, le decisioni di Trump possono non piacere, essere fortemente criticate e far pendere la bilancia a favore dei “con”; ma se quelle mosse vengono ponderate sul piano geostrategico e si valutano ponendo un “grave” circa il dominio iraniano in M.O. con la probabilità che si scateni un conflitto anche nel settore nucleare ed una continua produzione di terroristi, allora la bilancia oscillerà senza alcun dubbio a beneficio dei “pro”.
Che quelle decisioni siano o meno condivise dai “nani” della geopolitica, poco importa; ciò che rileva sul piano internazionale è che esista ancora una leadership lungimirante, anticonformista quanto si vuole, che richiami le responsabilità degli altri anche con una diversa caratterizzazione di amicalità e partnership nelle diverse missioni e teatri, ma che serva a tenere a bada i mariuoli togliendo dalle loro mani  gli strumenti più pericolosi per tutta la comunità, ben venga: lo richiedono i presupposti per il mantenimento della pace, cioè il rispetto di quelle regole innanzitutto a tutela della sicurezza di tutti nell’ambito di quel rinvenuto ordine mondiale. Regole e etiche che, nonostante l’ondivago e acquiescente andazzo di molti, qualcuno – vivaddio – riesce ancora a ribadire e a far osservare, per il bene di tutti, compresi i “contrari”.

Giuseppe Lertora