Da qualche giorno il mondo assiste con qualche titubanza, e a ragione, alle vicende e ai successivi incidenti che si sono verificati nelle acque del Golfo Persico con sabotaggi e sinistri navali, di cui non si conoscono ancora gli autori, contro diverse navi mercantili battenti bandiera Saudita o dei Paesi rivieraschi esportatori di petrolio nel mondo. Lo Stretto di Hormuz, porta di ingresso e di uscita da quelle acque, è stato di recente attraversato dalla Portaerei americana Lincoln insieme con un consistente dispositivo aeronavale, il cosiddetto CV Battle Group, insieme con un MARG, un Maritime Amphibious Ready Group, costituito da oltre 2000 marines imbarcati; tale ingresso rappresenta di per sé una sensibile escalation della tensione in quell’area anche considerata la forte “attrition” da tempo esistente fra Iran e USA, con gli States che appoggiano sempre più apertamente le ambizioni regionali dell’Arabia Saudita, degli Emirati del Golfo quasi al completo ed Israele, l’acerrimo nemico di sempre del regime degli Ayatollah. Al momento non è noto se quegli incidenti occorsi alle diverse unità rifornitrici di petrolio e alle compagnie saudite del Golfo, siano reali oppure strumentali per accrescere la tensione nell’area e quindi finalizzati a creare le condizioni per un vero innesco di un conflitto. Al di là di speculazioni e ipotesi fantasiose, desta perplessità l’eccessivo  numero di quei sinistri occorsi in breve tempo e in un’area così dimensionalmente limitata, ma turbolenta e del tutto importante; da lì si “suga” il 60% delle risorse energetiche per il mondo occidentale e in parte per i Paesi della regione del Pacifico, e quell’area ha una valenza geostrategica di tutto rilievo in cui, non ultimo, si gioca la partita geo-religiosa ed etnica per la Guida suprema ed il dominio del mondo musulmano.

I sinistri contro navi mercantili saudite ed emiratine, pare siano avvenuti con l’impiego di droni yemeniti; sono occorsi stranamente concentrati nel tempo e nello spazio, subito dopo i 2 atti di sabotaggio nei confronti di altrettante compagnie petrolifere saudite, e di un oleodotto, ma altrettanto inspiegabilmente senza danni ingenti in termini di sversamenti di petrolio, né con implicazioni e coinvolgimenti degli equipaggi di quelle navi: di prima acchito verrebbe da pensare che “la manina” sia quella iraniana che si è servita di quegli eventi per creare scompiglio fra i Paesi del Golfo, rincarare il prezzo del petrolio, innalzando  il livello di harassment contro gli americani a causa della loro politica contro il “nucleare” iraniano, dopo la sconfessione dell’accordo relativo, il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), e la loro aperta invasività in Medio Oriente.
Ma non è escluso, anche senza rivolgersi alla fantapolitica che, nell’ambito degli strumenti utilizzabili in maniera “covert”, gli stessi americani ed i loro affiliati, abbiano creato ad arte quegli incidenti, per costituire un “casus belli” per giustificare l’invio di una Forza Navale così consistente nel Golfo Persico.
A prescindere dalla “manina” degli sconosciuti e segretati autori, oggi dobbiamo riscontrare un livello di tensione decisamente elevato nell’area con possibile pregiudizio della pace e sicurezza dell’intera regione.
Già circa tre mesi fa, con un articolo dedicato ( “Alta tensione fra Israele e Iran: il Medioriente sta per esplodere?”) si valutava, pur senza piccarci di preveggenza ma solo mediante una semplice analisi della situazione, la possibilità che il Medio Oriente fosse in procinto di esplodere con inneschi e detonatori non del tutto casuali, a fronte di una situazione già di per sé assai fluida e ulteriormente aggravata da mosse non proprio conciliatorie da parte degli attori coinvolti.
La situazione in Medio Oriente è percorsa da incognite variabili e non ben definite; soprattutto dopo le mosse americane con il mancato rinnovo dell’accordo JCPOA sul nucleare con l’Iran, seguito dal preannunciato ritiro delle truppe USA dal teatro siriano e poi da quello afgano nonché, di recente, dall’affossamento del trattato INF sui missili balistici, le cose sono sensibilmente peggiorate.
Prevedere che, in particolare, la rimessa in discussione USA dell’accordo sul nucleare con l’Iran potesse portare a qualche sconvolgimento con una ulteriore crisi nella stessa Repubblica islamica, era abbastanza facile e logico; di più, le temerarie recenti dichiarazioni di Teheran di voler sospendere gli accordi sul nucleare e riprendere la produzione per l’arricchimento dell’uranio hanno fatto innalzare la tensione e gli incidenti navali hanno fatto il resto: è chiaro che nessuno dei “contender” vuole arretrare perché gli interessi in gioco sono molto importanti, per motivi diversi, ma per entrambi.
La situazione è seria, e la tensione è salita notevolmente, ma le mosse ed i responsabili di quegli incidenti escalatori non sono noti, né è dato sapere se sono imputabili a Teheran e alle Guardie Rivoluzionarie e agli amici yemeniti, ovvero a iniziative americane, confezionate di concerto con i sauditi ed emiratini, per creare ritorsioni più o meno giustificate verso l’Iran.
E’ pertanto necessario capire se siamo in presenza di una situazione talmente critica da prefigurare un vero e proprio conflitto regionale anche sul piano militare, oppure di un gioco a livello del Risiko, o di “fake news” pilotate ad arte; quindi si dovrà tentare di fare un’indagine coerente e obiettiva, sul piano tattico e strategico in base a fatti e intenti dichiarati dagli storici avversari che orbitano in quell’area, contestualizzandoli ed evidenziando con ponderatezza gli elementi pertinenti soprattutto a fronte di interessi geo-politici e geo-economici, ma senza prescindere da quelli  religiosi ed etnici, particolarmente ambiti e sentiti nel mondo Mediorientale. Con un approccio metodologico, vedremo i fatti e le dichiarazioni in ordine cronologico avvenute nei tempi più recenti che, a nostro avviso, hanno portato all’attuale escalation, formulando le ipotesi conseguenti più logiche e credibili.
Al di là di alcune scaramucce connesse con esercitazioni navali svolte nel Golfo Persico e di altre dichiarazioni spesso infervorate da ambo le parti, la “bench- mark” significativa per la salita della febbre in quell’area si colloca in concomitanza con le dichiarazioni ufficiali di Teheran di voler riprendere lo sviluppo del nucleare avvenute i primi di maggio 2019, seguite dalle minacce di voler interdire lo Stretto di Hormuz; Trump, nel tacciare le Guardie rivoluzionarie di essere un gruppo terroristico, ha ribadito le pesanti sanzioni per mettere in ginocchio gli iraniani, soprattutto con riferimento alle  esportazioni di petrolio da “azzerare”; gli Ayatollah, per contro, rinforzavano la querelle sostenendo che avrebbero disatteso totalmente i pregressi accordi se l’Unione europea non avesse trovato il modo di sopperire a quello strangolamento economico entro 60 giorni, cosa praticamente impossibile da attuare.
Pochi giorni dopo, il 6 maggio, arrivava di fronte alle acque iraniane la Portaerei Lincoln con il relativo Gruppo di scorta e oltre 2000 marines imbarcati sulla Nave anfibia Arlington, e l’indomani venivano schierati 4 bombardieri pesanti B-52 in una base del Qatar, a seguito delle ulteriori dichiarazioni minacciose degli Ayatollah; l’11 e 12 maggio si verificavano 2 atti di sabotaggio delle compagnie saudite nel Golfo con esplosione di un oleodotto e nei confronti di 4 navi mercantili petroliere saudite ed emiratine, con notevoli danni agli scafi, ma non agli equipaggi. Gli USA, sulla base di valutazioni della loro Intelligence, accusavano quindi l’Iran di preparare attacchi missilistici contro le proprie unità navali e i loro interessi, dopo alcuni lanci premonitori in Iraq, e provvedevano quindi a evacuare i diplomatici non essenziali delle ambasciate di Bagdad ed Erbil, seguiti poi anche dal Barhein; notizie Intelligence, smentite dallo stesso Trump, parlano di un piano di contingenza che prevede il dispiegamento di 120.000 uomini in stato di approntamento pronti a partire nel caso di attacco dei Pasdaran e, a più riprese, di un probabile attacco chirurgico: questa sequela di eventi ha fatto salire la tensione fra Iran e States a livelli di guardia e mettere al centro della disputa l’interdizione o meno di Hormuz, quale fulcro essenziale – insieme col petrolio – della crisi in atto. Paradossalmente entrambi, sia Iran che USA, dicono di essere del tutto contrari ad un’eventuale blocco di Hormuz, ma in realtà la chiusura dello Stretto è un target comune se si vogliono limitare e condizionare le esportazioni, creando così un imbottigliamento nel Golfo di oltre il 25% del petrolio prodotto, con grave nocumento ai Paesi Occidentali e a tutti i clienti dell’area del Pacifico, sia per la carenza dei rifornimenti sia per l’innalzamento astronomico del prezzo del barile del greggio, con nefasti effetti internazionali.
Il controllo e l’interdizione di Hormuz significa, per gli USA, condizionare le esportazioni di petrolio fino ad azzerarle, anche attraverso specifiche sanzioni nei confronti dei 7-8 Paesi compratori, al fine di strozzare l’economia dell’Iran e inibirne infine le ambizioni nucleari.  Per Teheran, invece, ciò costituirebbe lo strumento per condizionare l’uscita delle petroliere dei Paesi Sauditi, degli Emirati e di quelle in genere adibite a rifornire i clienti occidentale ed asiatici, con una riduzione del greggio esportato fino al 30% ed un conseguente incremento del prezzo del barile, dando origine a una crisi dell’Occidente assai simile a quella degli anni Settanta.  Tutti dicono di non voler la guerra, né di voler utilizzare il grimaldello di Hormuz, ma dagli atti e dalle mosse in corso, nessuno sembra voler recedere e fanno di tutto per far salire la febbre che si potrebbe espandere a livello epidemia; paradossalmente, a soffrire maggiormente di questa situazione sotto il profilo economico ed energetico saranno, più che i due contender diretti, i Paesi clienti importatori del greggio prodotto nel Golfo.
Emblematica e del tutto confusa resta tuttavia la serie di sinistri navali occorsi di recente che potrebbe configurarsi come una sorta di “fake news” mirata per far salire la pressione mondiale sull’Iran e, in qualche misura giustificare un attacco militare, o almeno servire da supporto diplomatico per convincere gli Alleati europei a schierarsi con gli intendimenti americani: di certo è servita ad alimentare una campagna di aperta propaganda per orientare l’opinione pubblica contro l’Iran dipinto come una minaccia e pronto a scatenare un’aggressione contro gli interessi nazionali e globali, anche con un vero e proprio conflitto.
È anche vero che, pur non essendoci prove in merito di un ruolo iraniano in quegli “strani e molteplici” incidenti, specialmente le Guardie Repubblicane non sono nuove a ricorrere a tali azioni asimmetriche, senza lasciare tracce né indizi, come avvenuto in passato: ciò avvallerebbe, come più probabile, quella valutazione di “prima acchito” circa la “manina” primaria degli Ayatollah nel provocare l’innalzamento della tensione in quella regione. Comunque sia, al di là della propaganda mediatica svolta ad arte da entrambe le parti in causa, dopo le sbandierate esercitazioni delle due Marine nel Golfo, continuano le manovre e le scaramucce con l’impiego di vari assetti aeronavali, in particolare da parte iraniana con piccole imbarcazioni veloci, mini-sommergibili e droni quasi a confermare le prime avvisaglie e i preparativi per un vero e proprio conflitto, pur in uno scenario decisamente asimmetrico se si considerano le forze navali ed aeree degli USA in loco, ma non per questo in un contesto meno pericoloso. Infatti, se è vero che si tratta di assetti fortemente asimmetrici, è anche vero che il teatro di operazioni in mare favorisce la Marina indigena rispetto agli americani; la Marina iraniana, pur avendo mezzi incomparabilmente inferiori rispetto agli assetti messi in campo dalla US Navy, ha il vantaggio della conoscenza perfetta dell’area e delle modalità per interdirla con l’uso dei suoi battelli veloci, circa 300, senza contare quelli dei “cani sciolti” dei Pasdaran, molti dotati, insieme con le sue 5-6 fregate, anche di sistemi missilistici a corto raggio, cui si sommano quali mezzi insidiosi particolarmente idonei allo scopo, almeno 40 minisommergibili capaci di lanciare siluri e molti dotati di capacità di lancio missilistico. A tali assetti si sommano, in quanto particolarmente idonei per attività di interdizione di un passaggio obbligato, numerosi droni per compiti di sorveglianza ed attacco, ma soprattutto i mezzi decisamente più insidiosi rappresentati dalle 6-7000 mine magnetiche e acustiche in loro possesso: la Marina iraniana cui si aggiungono, a parte, i Pasdaran delle Guardie della Rivoluzione agli ordini politici, può esercitare quindi un concreto “sea-denial” negando di fatto il libero uso del mare in tutto il Golfo Persico e, da Hormuz, condizionare se non bloccare i traffici commerciali, da e con i vari Paesi limitrofi.
D’altronde bisogna anche ben valutare le potenzialità complessive dell’Iran e postularne un’invasione o attacco non può essere emulato e considerato alla stregua di quanto avvenuto in Iraq;  quel Paese è esteso su un territorio sei volte tanto, ha circa 82 milioni di abitanti per la maggior parte giovani, è capace di mobilitare ingenti forze militari, come ha dimostrato recentemente nella lotta contro ISIS, ed è riuscito comunque a non dipendere esclusivamente dal mare e dal petrolio con importanti snodi e sfoghi terrestri verso l’Iraq, la Siria, il Libano e la Turchia: l’Iran è un osso duro, incomparabile con la vicenda Iraq, sia sotto il profilo militare che in quello geografico e sociale.
In sostanza, mentre il punto focale della contesa è la questione nucleare sul piano geopolitico e geostrategico, da un punto di vista pragmatico si declina nella precipua risorsa del petrolio e quindi, operativamente, l’obiettivo primario diviene Hormuz; il problema del petrolio in quanto tale non tocca più di tanto gli americani che hanno raggiunto di recente la piena autonomia e non hanno quindi più bisogno di importarlo, ma i vari Paesi produttori le cui economie sono focalizzate quasi esclusivamente nei proventi dell’oro nero, e analogamente i diversi Paesi da esso dipendenti. Le ripercussioni più pesanti in caso di ulteriore escalation della crisi verso un vero e proprio conflitto coinvolgerebbero la Siria, Iraq e Libano coalizzati contro Israele, ma gli effetti avrebbero risvolti globali con la Cina e la Russia; in compenso i Paesi della Ue, che continuano a procedere senza prendere decenti posizioni all’argomento, subirebbero conseguenze drammatiche da un’eventuale chiusura di Hormuz. È altrettanto vero che, nonostante le minacce americane e l’applicazione di ulteriori pesanti sanzioni, l’Iran si vedrebbe costretto a sviluppare il nucleare nel limite delle proprie possibilità, avendo ben compreso ad ogni buon conto che solo il raggiungimento di concrete capacità nucleari, come insegna la Corea del Nord, costituisce un deterrente unico per evitare conflitti convenzionali.
Bisogna prendere atto, in buona sostanza che, al di là delle diverse ragioni delle due parti e delle eventuali colpe di aver esacerbato una già precaria situazione con l’innesco di quegli incidenti e di surrettizie dichiarazioni, oggi siamo di fronte ad un livello di crisi preoccupante per cui è sufficiente un ulteriore, anche banale, incidente di percorso per far deflagrare l’intera regione.
Esistono fattori pertinenti nella disamina fatta, citati prima, sia a livello regionale che geopolitici, per cui è opportuno gettare acqua sul fuoco per abbassare la febbre della crisi attuale e riportare le questioni sul terreno diplomatico, dimenticandosi di poter bloccare militarmente Hormuz che avrebbe conseguenze drammatiche per tutti, ma che comunque, anche se ciò avvenisse, durerebbe davvero poco.
La questione più preoccupante e difficile da mediare consta nel livello di ambizione di quelle due Nazioni in aperta contesa; da un lato gli USA che vogliono mantenere il controllo del nucleare universale ma in particolare in Medio Oriente e soprattutto evitare l’ascesa abnorme di potenze regionali; dal lato Iraniano alle ambizioni nucleari si sommano in modo prevalente quelle militari a seguito del notevole impegno e risultati in Siria e Iraq nel contrasto dell’ISIS, ma soprattutto quelle religiose sciite finalizzate al dominio del mondo islamico contro il mondo sunnita capeggiato dai sauditi.
La via diplomatica, prima di giungere all’irreparabile uso della forza, potrebbe smorzare quei venti di guerra, ma ci vuole una volontà di entrambi i contender che, almeno per ora, non si palesa; l’unico modo per evitare il disastro sarebbe quello di rinegoziare un nuovo accordo “deal” fra le parti, prevedendo un preciso limite per l’arricchimento nucleare, con la previsione di ispezioni più mirate e meno vincolate, ridurre il numero dei missili balistici, e riconducendo i comportamenti regionali dell’Iran ad un livello più equilibrato. Qualcuno ipotizza addirittura che gli Ayatollah sperano nella sconfitta di Trump alle prossime elezioni del 2020, ma di certo l’Iran non potrà attendere 18 mesi con quella pressione economica, avendo a più riprese dichiarato di voler violare quell’accordo qualora non si rimuovano le sanzioni.
Alla fin fine e a prescindere dalle mosse future dei vari attori, se l’Iran continua, come pare, la sua definitiva uscita dall’accordo e la ripresa del programma nucleare, senza accettare la rinegoziazione di un “neo-deal”, gli americani si troverebbero in un angolo senza via d’uscita: fra la decisione di un ritiro umiliante, una condizione poco accettabile sia per il carattere di Trump, sia per i risvolti elettorali, oppure adire all’uso della forza militare con effetti devastanti.
E, nonostante l’attuale situazione scabrosa e i pareri bellicosi dei vari “falchi” dell’amministrazione, da Bolton a Pompeo, Trump ha dato di recente la sua disponibilità a “rispondere” ad una telefonata degli Ayatollah, confermando la sua volontà a trattare in quanto non vuole certo scatenare una guerra con l’Iran.
In compenso gli Occidentali tacciono e si limitano a guardare, defilandosi e senza aver capito che la botta più forte, da un qualsivoglia conflitto o anche da rinegoziazioni, cadrà sulle loro teste!
Una raccomandazione è d’uopo e insieme un monito che riguarda tutti, europei in primis: non c’è peggio, nella vita, che mettere la testa come gli struzzi e non vedere ciò che sta avvenendo attorno, pensando che -come le più terribili malattie – anche i conflitti riguardino solamente gli altri; spesso la politica in genere e perfino quella internazionale, cade vittima della sindrome del Risiko confondendo, perché fa comodo, la realtà cruda con il gioco. Al Risiko ci sentiamo in guerra, siamo tutti coraggiosi e strateghi e combattiamo battaglie inutili, ma in realtà quando siamo chiamati a un qualsivoglia intervento ci limitiamo ad invocare la pace, confidando nelle azioni degli altri. Come nel caso del Medio Oriente, la nostra società sembra sempre più disinteressarsi rispetto alla cruda realtà e non valutare obiettivamente le critiche condizioni attuali che, volenti o nolenti, toccano gli interessi concreti in via generalizzata e la Sicurezza globale, quindi anche la nostra. Siamo in preda di una sorta di straniamento dai problemi reali che non ci fa più avvertire neppure i venti di guerra che soffiano ed incombono sulle nostre teste: con la speranza che le guerre furiose del Risiko restino confinate nel gioco e nella finzione, altrimenti sarebbero guai per tutti!
Il ripristino delle sanzioni americane avrà ulteriori conseguenze non solo sul settore nucleare iraniano, ma anche sulla popolazione già sofferente da tempo per l’eccessiva inflazione e la concreta mancanza di materie prime e di medicinali vitali; l’Iran maschera la corruzione dilagante in ogni settore sociale e, nel contempo, una dittatura dietro le false sembianze di una democrazia che ha trasformato negli anni un Paese pieno di cultura e di nobili tradizioni in uno Stato irrigidito ed impoverito, capace di produrre ed esportare il terrorismo e la violenza, con ambizioni di dominio nell’intero Medio Oriente.
I vari ceti sociali borghesi e proletari sono coloro che soffrono maggiormente delle sanzioni; molto meno i loro Capi che pensano di realizzare con pervicacia il “grande disegno” iraniano e il loro regime, con gli ingenti proventi del petrolio. Che, peraltro, serve a sostenere più che le innegabili istanze sociali, gli Hezbollah ed altre frange terroristiche che seminano odio e violenze nei confronti del mondo musulmano, verso gli arabi e gli israeliani, nonché ad alimentare la dittatura siriana di Assad, la guerra in Yemen e minare la pace in tutto il Medio Oriente.
Quello del petrolio, riveste un ruolo importante sul piano non solo interno, ma essenzialmente geopolitico; l’Iran confida nell’ampliamento delle vendite per rinnovare le infrastrutture e soprattutto espandere il mercato interno, anche se la diffusa corruzione e gli appetiti “personali” dei loro leader, sono iperbolici; Teheran ha un “sacco” di petrolio, ma meno dell’Arabia Saudita con cui il contrasto, sia per motivi economici che religiosi e di dominio nell’area, è enorme ed è destinato ad aumentare con uno scontro finanziario, religioso e, chissà, forse anche militare.

Giuseppe Lertora

 

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